LA LETTERATURA DEL SIGNOR MANI

Abraham “Boolie” Yehoshua è uno degli autori, a volte molto diversi fra loro, che nel mio immaginario incarnano il modello letterario che amo, e il romanzo Il signor Mani (1990) è secondo il mio metro di misura quello che esprime al meglio la creatività di Yehoshua.

Il signor Mani indica un percorso per raggiungere qualcosa, un oggetto sempre più lontano, che paradossalmente, allontanandosi da esso, sembra a tratti avvicinarsi, ma che lascia senza una risposta precisa. Il suo messaggio, quello che per me è il suo messaggio, è l’invito a perseguire la strada della ricerca.

Il signor Mani del romanzo è una persona; poi un’altra che l’ha preceduta; poi un’altra che l’ha preceduta, poi un’altra e poi ancora una; per cinque volte. Anzi, sei. Noi lettori seguiamo a ritroso nel tempo la storia dei Mani, intravedendo, attraverso le biografie inventate dei personaggi, gli avvenimenti storici che nel corso dei secoli XIX e XX hanno fatto da sfondo alla nascita dello Stato di Israele, e al tempo in cui non era ancora uno Stato, e a prima che nascesse la sua idea stessa di Stato.

Il romanzo è diviso in cinque dialoghi fra due persone, che non sono quasi mai il signor Mani, bensì spettatori occasionali di un episodio della sua vita. O meglio ancora, solo uno degli interlocutori ha visto il signor Mani, per l’altro è uno sconosciuto. E in realtà non leggiamo un dialogo, o almeno non un dialogo come siamo abituati a intenderlo – scambio di battute fra almeno due personaggi – perché ascoltiamo solo ciò che dice uno di essi, quello che è venuto in contatto con il signor Mani del momento. D’altronde, non è nemmeno un soliloquio, né un semplice racconto, perché la parte mancante del dialogo, le domande e le interiezioni di chi ascolta la vicenda che ha per protagonista il signor Mani, ci vengono suggerite. Chi parla segue infatti il ritmo di una conversazione, e noi, leggendo una sola voce, intuiamo pure quella che non c’è. C’è un punto, nel romanzo, in cui Yehoshua stesso sembra scoprire questo meccanismo, quando due protagonisti leggono una lettera inviata loro dal padre… “leggendo quello che c’era scritto fra le righe e quello che non c’era scritto…” (p. 299, Einaudi, 1994). Leggere senza leggere. Percepire senza vedere, per mancanza.

Come avevo già accennato i dialoghi sono distribuiti nell’arco di due secoli e soprattutto presentati all’indietro, dal più recente, che si svolge in Libano nel 1982, a quello del 1848 in Grecia. Paradossalmente, più ci allontaniamo dal signor Mani del 1982 più ci sembra di avvicinarci a lui, ma non perché solo allontanandosi da un oggetto lo si può osservare nella sua interezza, così come solo conoscendo il passato si può comprendere il presente; o almeno non soltanto per questo. Se fosse così, che bisogno ci sarebbe di raccontare qualcosa a ritroso? Basterebbe cominciare dall’episodio più lontano nel tempo e poi avvicinarsi.

Nell’arte, la forma è il contenuto, e un romanzo non è un saggio, ma un’espressione artistica. Se si sceglie di raccontare una cosa in un modo è perché non lo si potrebbe fare altrimenti: cambierebbe, con la forma, il messaggio.

Allora, perché la storia si dipana all’indietro?

Perché i dialoghi sono riprodotti a metà?

Perché il signor Mani non parla mai, se non nell’ultimo dialogo, quello più lontano?

Perché Yehoshua indica un movimento, materializza una propensione: l’incamminarsi verso ciò che appunto è distante, non solo nel tempo, ma da noi. L’altro è qualcosa che non possiamo raggiungere (la mancanza della voce di un interlocutore esalta questa irraggiungibilità), ma i protagonisti del romanzo di Yehoshua vogliono capire: hanno incontrato un signor Mani e questo incontro è rimasto loro impresso per le domande che ha suscitato, e allora si interrogano. Parlano a un interlocutore per chiarire qualcosa a loro stessi. Alla fine, quando noi lettori incontriamo direttamente il signor Mani, è il nostro turno di iniziare a cercare di capire.

L’alterità in Yehoshua è ovunque, partendo dal nocciolo dove l’identità stessa si forma, la famiglia, il nucleo interrelazionale per eccellenza. Sangue del proprio sangue, si dice di un figlio, ma… e se il figlio è un estraneo trattato come se fosse un figlio? E se il figlio è considerato un nipote?

Sono casi che si ripropongono più volte nei cinque dialoghi che compongono l’opera. Troviamo la ragazza orfana che instaura il sentimento di un legame di sangue con il padre del proprio amato, vedendo in lui un surrogato del proprio padre morto (e il nonno dell’embrione che forse abita il suo utero). E ancora, il giovane militare tedesco paracadutato su Creta è figlio di un eroe della prima guerra mondiale, che d’accordo con la moglie, non più fertile, ha ingravidato una giovane domestica nel tentativo di colmare il vuoto lasciato dal figlio rimasto ucciso nella stessa guerra; il nuovo ragazzo, nei confronti della donna anziana e del padre carnale instaura un rapporto nipote/nonni. E ancora, uno dei signor Mani, il giovanissimo figlio di un aspirante rabbino sprovvisto del talento per realizzare il suo sogno, viene mandato dal padre a studiare presso la sua guida spirituale e la relativa consorte. Lì, verrà “adottato” dalla coppia e trattato dalla donna come un figlio, tanto che lei arriverà a combinare il matrimonio fra lui e la nipote prediletta. E quando il ragazzo morirà, senza aver dato una discendenza ai Mani, senza neppure essersi mai congiunto con la giovane moglie, sarà suo padre a metterla incinta per cancellare questo “errore”: viene in mente il romanzo del 2001 La sposa liberatrice (sconsideratamente tradotto da Einaudi con il titolo La sposa liberata), dove i vincoli familiari sono messi alla prova con l’incesto… La famiglia non appare quindi come un’istituzione dai confini ben definiti: è un luogo incerto, da esplorare.

Il signor Mani è un invito a predisporsi al viaggio verso l’altro, verso ciò che è più lontano, nello spazio e nel tempo, e ciò che è vicino, perché in realtà vicino non è. Nelle pagine di Yehoshua le distanze sembrano allungarsi e poi annullarsi: luoghi e epoche sono unite da un filo impalpabile e allo stesso tempo concreto come il belato di una capra nera che appare e scompare nel paesaggio. Per questo possiamo ricomporre una storia a ritroso: una volta individuato il luogo della ricerca, comunque ci incammineremmo per raggiungerlo lo troveremmo. È percependo questa propensione al viaggio che proviamo il brivido, l’intuizione, di poter arrivare, un giorno, a comprendere il signor Mani.

Come avevo detto a proposito di Oesterheld

Il signor Mani, Yehoshua
Il signor Mani, Yehoshua

, la letteratura che io riconosco come mia, non afferma, interroga. E se è vero che la realtà si percepisce a seconda dello sguardo con cui la si osserva, una letteratura interrogativa sceglie come oggetto della propria osservazione ciò che è ambiguo, indistinto, perché solo nelle zone fra luce e ombra si può cogliere la verità. Sarà vera, questa mia ultima affermazione? Non lo so. Però è così che io intendo la letteratura (i libri che vale la pena leggere), e la realtà che mi circonda.

Quando penso al signor Mani mi viene in mente un altro personaggio letterario, inventato da Pepetela: Alexandre Semedo, protagonista del romanzo Yaka (1985).

Yaka è la statua bantu che inquieta fin dall’infanzia Semedo. Ereditata dal padre, un “colono forzato” (il condannato a cui si commutava una dura pena detentiva con l’esilio nei possedimenti d’oltremare), Yaka sembra possedere il dono di svelare la realtà, se solo si riuscisse a penetrare il suo sguardo enigmatico. Alexandre Semedo, pur essendo un colono mosso da sentimenti di giustizia sociale e anticonformismo, è incapace di operare una qualsiasi scelta, adeguandosi passivamente alla realtà in cui si trova immerso. La sua è la ricerca di un’identità personale che si intreccia con quella di un’intera nazione, una ricerca che troverà una risposta solo in vecchiaia, nel momento in cui l’Angola si appresta a diventare un paese indipendente. Allora, comprendendo che Yaka è la parodia bantu di quel colono che lui non è mai diventato, si scoprirà finalmente capace di una scelta autentica.

Yaka è un romanzo dal respiro mitico, che esalta un eroe contraddittorio, perché la realtà, per Pepetela, non può che essere contraddittoria.

Il protagonista del libro ricorda appunto uno dei signor Mani di Yehoshua, Josef Mani, quello che a Gerusalemme si mescola agli arabi, entrando nelle loro case, nelle loro moschee, perché “sono ebrei anche loro, ma l’hanno dimenticato”. Nell’altro si coglie la potenzialità della differenza, intuita attraverso il senso di vertigine che l’alterità porta con sé. L’intuizione di una potenzialità, più che il senso del potere, è ciò che per me si addice alla letteratura.