Antonio Tabucchi: la forma dell’assenza

All’inizio di Requiem – uma alucinação (Quetzal Editores 1991), il romanzo che Antonio Tabucchi scrive il lingua portoghese, ci vengono presentati in ordine di apparizione i personaggi che il protagonista incontrerà nel corso dell’opera. Troviamo quindi Il Ragazzo Drogato, Lo Zoppo della Lotteria… e poco prima della fine, Isabel.

E’ proprio attorno a questo personaggio, Isabel, che si regge la storia, perché costituisce il fulcro del rimorso che spinge il narratore a confrontarsi con il suo passato. Però questo personaggio, annunciato dall’elenco iniziale, non appare. Alla fine del capitolo 7 il Maître della Casa do Alentejo lo annuncia:

“Está ali uma senhora à sua procura, disse o Maître da Casa do Alentejo ao voltar pela sala, diz que é a senhora dona Isabel. Acompanhe-a ao bar, se faz favor, disse eu, que eu já a vou lá ter. E peguei na garrafa de vinho do Porto.” (p. 105)
(Di là c’è una signora che la cerca, disse il Maître della Casa do Alentejo tornando nella sala, dice di essere la signora Isabel. Per favore, la faccia accomodare al bar, dissi io, la raggiungo subito. E presi la bottiglia di Porto.)

Ma quando cominciamo a leggere il capitolo seguente ci rendiamo conto che Isabel non c’è. Torniamo a confrontare l’elenco dei personaggi e vediamo che in effetti il Venditore di Storie con cui il protagonista sta parlando in quel momento segue Isabel, ma il capitolo a lei dedicato è stato omesso. Si tratta quindi di una censura; di un’omissione, appunto. Eppure, tutto il romanzo, fino ad allora, ci aveva condotto all’incontro fra i due. Capiamo quindi che l’intenzione di Tabucchi era portarci di fronte a questa censura, come a voler dire che non di tutto si può parlare.

Non mi ricordo più dove, ma Tabucchi in un suo racconto dice che lo scrittore è una spogliarellista al contrario: mentre l’arte della prima consiste nello svelarsi fino alla nudità, egli nella sua copre la propria essenza, mascherandola alla curiosità di chi lo osserva. Dice, nascondendosi.
Uno dei tratti distintivi di Tabucchi è appunto quello di riuscire ad approfondire un discorso (nel caso di Requiem il rimorso) girandoci attorno, come un disegnatore che tratteggia attraverso i contorni di una forma un’altra ancora.

In Rebus, uno dei racconti di Piccoli equivoci senza importanza (1985, Feltrinelli) il protagonista è un autista che deve accompagnare una donna affascinante e misteriosa da Parigi a Biarritz, e fra i due nasce una storia d’amore. La strada che lei gli chiede di percorrere non è la via più breve, perché gli chiede di portarla a visitare alcuni luoghi della memoria:

“Un percorso assurdo, l’ho già detto, prima scendemmo a Rodez, e poi verso i vigneti albigesi, perché Miriam voleva vedere un paesaggio. Credevo che fosse un panorama, ma era un quadro, e lo trovammo. E poi saltammo Tolosa…” (p. 40)

Ecco, Tabucchi non fa rivelare al protagonista di che quadro si tratti. Non è importante, anche se a me lettore era sorta la curiosità di saperlo, ma il vuoto di quel quadro, la sua assenza, è funzionale a comunicarmi che il senso del racconto deve rimanere concentrato su quello della sorpresa dell’autista. Dopo i vigneti albigesi Miriam vuole andare a Pau, per vedere la città dove sua madre aveva trascorso l’infanzia in un collegio, e l’autista commenta:

“Era la prima volta che pensavo all’infanzia della madre di una donna che stava con me, era un sentimento nuovo e strano.” (p. 40)

Avendolo descritto con questi due aggettivi mi aspetterei che approfondisse il sentimento, spiegandomi il perché della novità e della stranezza che vi attribuisce, ma non lo fa; mi lascia un vuoto da riempire con la mia esperienza.

Rebus è scritto come un thriller, con tanto di colpo scena finale preceduto da un tentativo di omicidio, ma non è un thriller, perché non ci viene svelata nessuna storia, non si dipana nessun mistero, anzi, questo si infittisce, e noi lettori veniamo lasciati a immaginare la storia, il senso dei frammenti di cose che potrebbero significarne altre, se interpretate correttamente: proprio come un rebus.

Nel 2013 è stato pubblicato l’ultimo libro di Antonio Tabucchi, postumo: Per Isabel (Feltrinelli). Come qualcosa che torna dalla morte appare il personaggio censurato nella vita letteraria dello scrittore, Isabel. Il romanzo è quindi un libro che chiude un percorso iniziato nel 1991, anno in cui sempre la stessa Isabel  ricorre in un altro libro, L’angelo nero (Feltrinelli).

Mi ricordo ancora quando nella primavera del 1991, entrando in libreria mi imbattei in quel libro, esposto sul banco delle ultime uscite. Non conoscevo ancora Tabucchi, quindi fu pensando a una raccolta di racconti di un esordiente che lo aprii e iniziai la lettura del primo, rimanendone affascinato come non mi è più successo. Non voglio dire che da allora non mi sia imbattuto in nulla di altrettanto valido  (la maggior parte degli scrittori che stimo oltre misura li ho conosciuti successivamente, e uno, José Cardo Pires, proprio grazie a Tabucchi), ma nessuna opera mi ha più impressionato come quella. Fu come prendere la scossa, o andare a sbattere in una vetrata che non si vede. Non si trattava di qualcosa di cui l’autore parlava, perché l’incanto si è prodotto subito, prima di poter afferrare con la coscienza un brandello di trama, bensì attraverso la musica delle sue parole. Sentii che la forma di quel racconto, la voce con cui l’autore si accingeva a raccontare una storia, mi apparteneva.

Quando si ama un autore in questo modo, perché lo sentiamo nostro, perdiamo ogni obiettività, tuttavia ricordo che non provai nessun risentimento quando, negli anni ’90, in una trasmissione televisiva, sentii un altro scrittore definire Tabucchi un autore “piccolo”, “perché scrive cose piccole”. Provai un senso di frustrazione, perché sentivo che quello scrittore semplicemente non era in grado di capire i libri di Antonio Tabucchi, e non vale la pena lottare contro chi ha una sensibilità diversa dalla tua: si parlando due linguaggi differenti, e in quel caso lui non riusciva a capire la grandezza di quelle cose “piccole”.

Per Isabel  è un regalo, perché per anni avevo scommesso con me stesso che prima o poi Tabucchi avrebbe fatto uscire dalle quinte di quel meraviglioso spettacolo teatrale che sono stati i suoi libri il capitolo mancante di Requiem. E’ successo dopo la morte, il che mi sembra una cosa che gli si addica. Così come il fatto che al pari delle altre opere anche in questo romanzo la bellezza continui a palesarsi attraverso un meccanismo di descrizione per assenza.

Sono grato a Tabucchi per avermi fatto sentire ancora una volta la sua voce. Il suo sentimento del mondo.