Cees Nooteboom, o la memoria del cane

Ho incontrato Cees Nooteboom per la prima volta a Rimini, nell’aprile del 2018, all’angolo fra via Michele Rosa e Piazza Gramsci, proprio di fronte al mercato coperto. Avevo appena comprato il suo romanzo Rituali in edicola, perché Iperborea assieme al Corriere della Sera stava pubblicando la collana “Boreali”, e mi era venuta la curiosità di leggere subito l’incipit, in piedi, continuando a camminare (o forse mi sono fermato, non ricordo); comunque è così che ho conosciuto Cees Nooteboom:

Il giorno che Inni Wintrop cercò di suicidarsi, le azioni della Philips erano a 149,60. La quotazione di chiusura della Banca di Amsterdam era di 375 fiorini e l’Unione marittima era scesa a 141,50. La memoria è come un cane, va a sdraiarsi dove le pare. E questo era quello che lui ricordava, sempre che ricordasse qualcosa: le quotazioni, e la luna che si rifletteva nel canale, e che si era impiccato nel suo gabinetto perché quel giorno, nella rubrica d’astrologia che teneva sul quotidiano Het Parood, aveva predetto che sua moglie sarebbe scappata con un altro e che lui, Leone, si sarebbe ucciso.” (Cees Nootebom, Rituali, 1980, traduzione di Fulvio Ferrari, Iperborea, 1993).

Non conoscevo Nooteboom, non l’avevo nemmeno mai sentito nominare, ma la metafora del cane che avevo appena letto mi ha suscitato un immediato sentimento di empatia. Dare forma ai ricordi incoerenti di una coscienza che affronta la morte con l’ausilio del gesto allo stesso tempo arbitrario e risoluto di un cane stanco era qualcosa che mi apparteneva. Ho chiuso il libro, sono salito in auto e sono andato a lavorare, felice di essermi imbattuto in un libro promettente.

Quando poi l’ho letto ho scoperto che non solo il romanzo aveva mantenuto le promesse, ma si era rivelato ancora più affascinante di quanto potevo immaginarmi. Ciò che più mi colpisce in Rituali è che è difficile individuare un protagonista. Certo, il protagonista è Inni Wintrop, ma la sua figura emerge in sintonia e contrasto con altri due personaggi. Il libro, diviso in tre parti cronologicamente sfalsate (avvenimenti che accadono nel 1963, poi nel 1953 e infine nel 1973), parla sì di Inni ma nella seconda parte, e più ancora nella terza, la sua figura viene accostata a personaggi che gli rubano la scena. Alla fine, noi che leggiamo di Inni, rimaniamo colpiti soprattutto da questi altri due attori che intessono col signor Wintrop un articolato gioco del doppio.

L’impressione che ne ho ricavato è che Nooteboom racconti una vita attraverso altre due che l’hanno attraversata. Come se non fosse possibile, o almeno non sempre, concentrarsi solo su un personaggio. Al modello di letteratura che si focalizza su di un protagonista attorno a cui tutto il mondo gira, Nooteboom accosta quella dove noi che viviamo siamo il prodotto non solo del nostro sentimento del mondo, ma pure delle persone che abbiamo incrociato lungo la strada, come se una vita fosse la somma di più vite e cercando di narrarne una è impossibile non perdersi nel racconto delle altre. Se il racconto di una storia è una memoria allora quella di Nooteboom sembra mostrarci lo sguardo di chi si perde perché, iniziando a seguire la linea di un paesaggio, da questa viene distratto a contemplarne altre, che ne delineano di nuovi.

Ho ritrovato questo spirito narrativo in un’altra opera, Perduto il Paradiso (2004, traduzione di Fulvio Ferrari, Iperborea, 2006), romanzo diviso in due parti. Nella prima la protagonista è una ragazza brasiliana che fin da bambina è cresciuta con una zona d’ombra dentro di sé, la stessa ombra che da ragazza la spinge, una sera, ad avventurarsi in una zona pericolosa della sua città: l’auto rimane in panne e lei viene violentata da un gruppo di uomini. Allora quella zona d’ombra si ispessisce finché un’amica d’infanzia non la porta in un altro continente, in Australia, per un viaggio di lavoro e scoperta. Lì la protagonista incontrerà un uomo, un artista, parco di parole, quasi impenetrabile, con cui vive una storia d’amore a tempo: una settimana. E’ quanto lui è disposto a concederle, e lei accetta. Nooteboom, analizzando la sofferenza della donna, ci guida lungo un percorso di catarsi senza però raccontarci un vero e proprio epilogo, tanto che il racconto rimane sospeso. Nella seconda parte dell’opera troviamo un altro personaggio, un critico letterario sulla soglia dell’età anziana. Quattro anni prima, dopo il divorzio dalla moglie, ha iniziato una relazione con una donna più giovane di lui: vivono in appartamenti separati e forse lui è un po’ depresso. Nooteboom ce lo mostra mentre sta viaggiando per raggiungere, dai Paesi Bassi dove vive, una clinica sulle Alpi svizzere: lì per una settimana si prenderà cura del suo corpo attraverso una dieta, delle attività fisiche, saune e massaggi. Dagli indizi che possiamo cogliere capiamo che si tratta di un uomo forse cinico, forse stanco, sicuramente insoddisfatto del suo mestiere.

In questa clinica, un paio di giorni dopo esservi giunto, l’uomo incontra la protagonista della prima parte del romanzo. Scopriamo che i due si erano già incontrati, tre anni prima, in Australia, e che avevano vissuto una breve storia d’amore. Ciò che mi sorprende è che dai loro dialoghi non riesco a cogliere nuovi dettagli sulla donna. Mi sarei aspettato di scoprire come avesse finito di elaborare il trauma della violenza, mentre ora la osservo già in fase di ritrovato equilibrio. Più che sorprendermi di ritrovarla in quel luogo e con un punto di contatto con il protagonista della seconda parte del romanzo, mi colpisce il fatto di trovarmi di fronte a un personaggio mutato. E’ come se Nooteboom avesse scelto di non raccontare qualcosa, contrariamente a quanto pensiamo debba fare un bravo scrittore. Forse, Nooteboom è un cattivo scrittore. Oppure è una persona convinta che non si possa raccontare sempre tutto, e che le persone che incontriamo siano difficilmente definibili in ogni loro aspetto. O che sia necessaria una forma di pudore pure nella finzione.

Perduto il Paradiso è provvisto anche di un prologo ed un epilogo e in essi si manifesta un tema ricorrente in diverse altre opere di Cees Nooteboom, ovvero il carattere metatestuale della narrazione. Nel prologo un personaggio prende un aereo. E’ un personaggio che parla in prima persona, sta ragionando sul modello di aereo in cui si è imbarcato, quindi penso che sia in procinto di viaggiare, come in effetti è, solo che non si tratta di un personaggio bensì dello stesso autore. Accanto a lui, infatti, poco prima della partenza, si siede una donna che legge un libro: quel libro, come ci informa Nooteboom…

E’ questo libro, un libro da cui ora lei scompare insieme a me. (p. 19)

Nell’epilogo l’autore, imbarcatosi su di un altro aereo, incontra la stessa donna e questa volta addirittura lei, porgendogli il libro, gli fa conoscere le ultime parole con cui egli lo finirà:

“Mancano solo il nome di un luogo e una data”, dissi io.

“E un’altra citazione”, aggiunse. “Lo fa sempre, no? Ecco le ho trovato qualcosa.” Aprì il libro alla fine, dove aveva infilato un foglietto tra le pagine, me lo porse. Aveva sottolineato a matita i versi che voleva mostrarmi.

Amsterdam, febbraio 2003

Es Consell, San Luis, 26 agosto 2004″

Per Nooteboom, ne deduco, ogni racconto è inscindibile dall’autore che lo pronuncia. Non esiste un mondo obiettivo in cui intonare il “C’era una volta”, ma un continuo incontro di punti di vista. Un mondo dove i personaggi non sono mai passivi oggetti di narrazione, ma nascondono almeno un tratto indefinibile. Non si tratta di un vezzo stilistico bensì di una presa di posizione. Cronologicamente, la prima volta che troviamo questa poetica in Nooteboom è in un libro da lui scritto nel 1981, Il canto dell’essere e dell’apparire (traduzione di Fulvio Ferrari, Iperborea, 1991), in cui uno scrittore ci viene mostrato mentre inventa una storia. Vediamo i suoi personaggi nascere ed evolversi, mentre lui ragiona su come farli interagire. Allora noi assistiamo a due storie: quella dell’atto della creazione artistica, e il suo risultato. Però… alla fine di questo breve romanzo un altro attore irrompe sulla scena: Cees Nooteboom in persona, e lo fa a tradimento. Aveva appeno finito di descrivere i sogni agitati di uno dei suoi personaggi, “il colonnello”, coricatosi in un albergo nella Roma degli anni Settanta dell’Ottocento, quando prosegue con queste parole:

“Si svegliò con un lancinante mal di testa, la bocca piena di quel sapore di morte e disgusto che ti viene quando prendi un sonnifero troppo forte a notte inoltrata. […] Uscì senza radersi, passò tra le guardie e i giornalisti davanti al palazzo del Parlamento in piazza Montecitorio, scese nel sottopassaggio che aveva già avuto una parte in un altro romanzo olandese e sbucò all’altro lato di via del Corso, vicino all’edicola dove comprò il Messaggero traboccante di rivoluzione, attentati, ayatollah e sangue.

Quel giorno avrebbe terminato il suo racconto, ne era certo.” (p. 89)

Non è quindi il colonnello alla fine degli anni ’70 dell’Ottocento che si sveglia con il mal di testa, ma l’autore di questa storia, in una Roma ai tempi della rivoluzione iraniana del XX secolo, colui che ha immaginato uno scrittore che si immagina un personaggio. Per Cees Noteboom non esiste un mondo fatto di storie a cui attingere per raccontarle, ma un mondo creato dal punto di vista di chi lo osserva.

Uno dei romanzi dove questa poetica raggiunge i suoi vertici è Le montagne dei paesi bassi (1984, traduzione di Fulvio Ferrari, Iperborea, 1996), dove il signor Alfonso Tiburòn de Mendoza, ispettore delle strade nella provincia di Saragozza, in Spagna, ogni estate, approfittando del fatto che il fratello è preside di una scuola elementare, si reca in un aula vuota per scrivere i suoi libri. E così questo ispettore stradale ci racconta una storia ambientata in un Paese e in un tempo immaginario, una storia che è un romanzo d’amore, e d’avventura. Questa storia, nonostante sia sempre presente alla mia mente che si tratti di una finzione, non di meno mi seduce per la sua bellezza: perché la fantasia, partorita da qualcuno che è reale, lo è a sua volta.

Se un racconto è la memoria di qualcosa, quella di Nooteboom non dimentica mai che la finzione è un elemento fisico quanto il cervello che la immagina. E ce lo ricorda. Amo questo scrittore.

Qui trovate il suo sito web.

Qui l’elenco di molte opere tradotte dal suo principale editore italiano.

(P.S. Lo so, Tiburòn si scrive con l’accento acuto e non grave sulla “o”, ma questo sito non mi permette di scegliere i caratteri accentati. Che disdetta.)