Comincia con l’autore che parla del romanzo che ha scritto, quello che stai leggendo fra le mani. Ti spiega quanto sia stato difficile per lui scriverlo e del tempo che ci ha messo; anni. È un romanzo che parla di un massacro in tempo di guerra, lui, l’autore, c’era, era prigioniero, e con i suoi compagni d’armi era rinchiuso, la notte, in un mattatoio dismesso. Di giorno invece li portavano (i nemici, quelli che li avevano fatti prigionieri), a fare dei lavori in giro per la città, perché si trovavano in una città. Che poi è stata bombardata, con bombe incendiarie e ad alto potenziale. Alla fine del bombardamento erano morte più persone di quelle che pochi mesi dopo sarebbero morte a Hiroshima per via della bomba atomica. L’autore e i suoi compagni si erano salvati perché di notte vivevano sotto terra, e il bombardamento c’era stato di notte, per questo si erano salvati, assieme ai loro guardiani. Gli stessi guardiani che poi si erano serviti di lui e dei suoi compagni per recuperare i cadaveri degli abitanti, sepolti da macerie che i prigionieri rimuovevano per raggiungerli. Quel paesaggio di distruzione e morte ha colpito a fondo l’autore del romanzo, tanto che per anni, una volta liberato e tornato nel suo paese, ha pensato di scriverne, ma non ce la faceva. Invece poi a un certo punto ce l’ha fatta, tanto che ora posso leggere quest’opera fra le mie mani. Solo che, almeno all’inizio, per tutto il primo capitolo (diciassette pagine, nell’edizione italiana che ogni tanto rileggo), non sembra un romanzo, ma una testimonianza. L’autore non fa che spiegare come sia stato difficile per lui scrivere questo romanzo, e racconta diversi aneddoti delle sue difficoltà. Poi però, a partire dal secondo capitolo, il romanzo comincia.
È un romanzo di fantascienza ambientato durante la seconda guerra mondiale. Il protagonista è un ragazzo di vent’anni, un tipo imbranato e rassegnato, che viene fatto prigioniero. Ha però una caratteristica degna di un vero eroe: viaggia nel tempo. Ogni tanto, senza che lui lo controlli, si trova a vivere nel suo passato o nel suo futuro. Questa cosa, che lui non può decidere quando viaggiare nel tempo, si intona alla sua goffaggine e alla sua rassegnazione di fronte alle cose del mondo. Il protagonista ha vissuto e rivissuto la sua nascita (un colore azzurro con una nota meravigliosamente scivolosa) e la sua morte (un colore nero con una nota orribilmente tirata), così come come tutti gli avvenimenti che accadono nel mezzo. Lui, a partire dalla sua esperienza di guerra, da quando per la prima volta ha sperimentato i viaggi temporali, vive così. Probabilmente è per questo che a un certo punto della sua vita viene rapito dagli extraterrestri. Sono extraterrestri particolari, hanno la caratteristica di poter contemplare costantemente tutto il tempo, dal Big-Bang alla fine dell’Universo, e proprio per questo sono attratti dal curioso terrestre che invece vive i suoi viaggi nel tempo con la consapevolezza costante che, in ogni situazione in cui si ritrova, quello è il suo adesso, seguito a un prima e in attesa del dopo. Invece loro guardano il tempo come un umano potrebbe guardare un tratto del profilo della Montagne Rocciose: nella sua interezza.
I viaggi nel tempo del protagonista hanno l’effetto di renderlo distaccato dalla drammaticità degli eventi che si trova di volta in volta ad affrontare. La conoscenza della sua intera vita smorza l’angoscia delle situazioni difficili, dal momento che queste perdono il carattere di assoluta novità che caratterizza il presente e vengono vissute come episodi di una narrazione già nota. È una cosa molto diversa vivere l’esperienza di precipitare dentro un aereo sapendo già che sopravviveremo all’incidente, o non sapendolo. Il protagonista lo sa, e quando vivrà quell’esperienza lo farà senza angoscia e sorpresa. Questa forma di estraniamento emotivo che caratterizza il protagonista contagia anche noi lettori, e non potrebbe essere altrimenti, perché posti di fronte a una narrazione distaccata non siamo in grado di leggerla diversamente.
Ma quest’opera ci offre anche un altro effetto di estraniamento, la commistione fra realtà e invenzione. In diverse occasioni l’autore ricopre un ruolo di comparsa nelle vicende del protagonista. Quindi non solo l’opera si è aperta con l’autore che annunciava la volontà di scriverla, ma nel romanzo vi troviamo l’autore in piccoli ruoli secondari. Questo ha il duplice effetto di distoglierci dall’idea che il protagonista sia un alter ego dell’autore (e dall’idea di leggere quindi un’opera meramente autobiografica), e di impedirci di dimenticare che stiamo leggendo un’opera di finzione. Va bene, leggere di viaggi nel tempo desta il nostro scetticismo, e ovviamente non abbiamo creduto, leggendolo, che esistano veramente extraterresti alti sessanta centimetri a forma di stura-lavandino, voglio dire… lo sappiamo che stiamo leggendo una finzione, ma prendiamo atto che l’autore intende ricordarcelo a più riprese, e questo non è un dettaglio narrativo, bensì una scelta stilistica. Realtà e finzione sono inscindibili: il bisogno di raccontare la prima genera la seconda, e ci viene ricordato costantemente. Ad esempio con la musica. Nel romanzo vengono citate molte canzoni, diverse strofe sono state trascritte. Questi inserti musicali costituiscono una vera e propria colonna sonora, qualcosa che porta me lettore “fuori” dall’opera di finzione, nella vita vera, dove queste musiche sono nate dalla fantasia di altri autori.
Un ulteriore effetto di estraniamento ci viene trasmesso dallo sguardo distaccato dell’autore. Il tema di quest’opera è l’orrore della guerra e il credo antimilitarista che per reazione ad esso scaturisce in chi scrive, ma il sentimento che trapela non è l’esecrazione, o il tono messianico di chi propugna una verità (in questo caso il pacifismo), invece l’ironia. I personaggi non sono mai grotteschi, gratuitamente caricaturali. L’autore non li giudica moralmente, li descrive come esseri che si comportano in una certa maniera perché la loro biografia e le circostanze della vita in quel momento produce in essi quel risultato. Io, come lettore, non li guardo con scherno, ma con compassione. E questo perché l’occhio dell’autore è antropologico; la sua ironia non giudica, prende semplicemente le distanze.
Nell’opera ci sono anche delle immagini, disegnate dall’autore. Se vengono proposte come pure illustrazioni al testo in realtà io le vivo come qualcos’altro, qualcosa che aggiunge senso al testo. Ho l’impressione che il testo enunciato nel romanzo una volta riproposto attraverso i disegni sbuchi fuori dal libro, come se il disegno allungasse la mano per prendermi, e dirmi che devo fare attenzione a quello che leggo, perché questo non è un romanzo come tutti gli altri.
Tutte queste forme di estraniamento sono funzionali al senso del romanzo, che non è quello di lanciare un messaggio pacifista (il pacifismo è solo uno degli elementi della narrazione), quanto trasmettere al lettore la percezione fisica di un sentimento del mondo: quello che la vita con i suoi orrori e i suoi momenti piacevoli è ingovernabile. Ma se il protagonista è pervaso da un senso di rassegnazione, al contrario l’autore ci trasmette la voglia di combattere per un alternativa. A tutti coloro che gli ricordano che la guerra è inevitabile per la specie umana, o che sì, il bombardamento di quella città è stato un abominio, ma le contingenze in quel momento lo hanno reso inevitabile, lui risponde: lo so… lo so… Questa è la sua risposta che a più riprese noi lettori leggiamo nel libro. Però c’è una canzone in questo romanzo, si chiama My name is Yan Yanson, è una ballata tradizionale. Un tizio non fa che ripetere che lui si chiama Yan Yanson, viene dal Wisconsin, lavora nella segheria di quella parti, e quando va in città la gente che incontra gli chiede, Come ti chiami? Allora lui risponde che si chiama Yan Yanson, viene dal Wisconsin, lavora… eccetera. È sicuramente un gioco, uno scherzo, o forse no, se ci pensiamo bene. C’è un tizio che ripete le poche cose che sa. Appunto, le ripete. E le ripete perché sono quello che il mondo gli ha insegnato, e lui questo lo vuole dire. Anche se è poco. Ecco, suonando la musica del suo romanzo l’autore mi fa ascoltare il suo: Lo so… Lo so…, e io invece sento: Lo so… eppure io la penso diversamente. Ecco, questa per me è l’ulteriore prova che protagonista e autore non coincidono, e che il primo sia solo un mezzo con cui il secondo dice quello che vuole dire.
Ma insomma, che tipo di romanzo è questo? Postmoderno, forse? Se per romanzo postmoderno, prendendo in prestito dall’architettura il termine affermatosi nei primi anni ’60, si intende il superamento dello sperimentalismo del Novecento, io credo che questo aggettivo non si accordi al romanzo in questione, che al contrario rimane perfettamente sperimentale: letteralmente, rinnova la forma del romanzo. Ma allora, che romanzo è questo?
Be’, io sono convinto che si tratti di un perfetto romanzo trafalmadoriano. Pace.