Jacque le fataliste, un inno alla libertà

denis_diderot_jacques_le_fatalisteÈ un romanzo che sprigiona voglia di vivere e libertà, come un viaggio in macchina con i finestrini aperti ascoltando la musica che ti piace… Non volevo iniziare così, Diderot non se lo merita. Pazienza. Il libro invece comincia in questo modo:

“Come si erano incontrati? Per caso, come tutti. Come si chiamavano? Che importa? Da dove venivano? Dal posto più vicino. Dove andavano? Forse qualcuno sa dove si va? Cosa dicevano? Il signore non diceva nulla, e Jacques diceva che il suo capitano diceva che ogni cosa che ci succede quaggiù, buona o cattiva, è scritta lassù.” (1)

È l’autore che parla: si rivolge direttamente e di continuo al lettore. Questa cosa ricorda un romanzo che Diderot cita, giocandoci sopra, il Tristram Shandy di Lawrence Sterne, arrivando addirittura a suggerire che le ultime pagine di Jacques le fataliste et son maître possano essere il plagio di un’opera dello scrittore inglese. In realtà Sterne costruisce l’universo di Tristram Shandy tramite digressioni continue e impreviste (2), ma nella sua opera il richiamo al lettore si intona allo stile narrativo, essendo uno degli strumenti per creare l’effetto dell’ironia: è cioè un elemento formale, come un singolo gradino lo è di una scala. Il personaggio di Jacques, al contrario, viene inserito in un mondo dove regna l’arbitrarietà del suo narratore.
Nel romanzo di Denis Diderot la finzione è quindi scoperta: lo scrittore si presenta come il dio di questa storia, riconducendo solo al suo arbitrio il poterla svolgere in una direzione invece che in un’altra. La storia è platealmente un’invenzione, un artificio, ciò che la rende affascinante non è quindi l’intreccio della trama, ma l’avventura del narratore, il percorso della sua fantasia, ovvero l’atto della creazione in sé.

Diderot amplifica questo effetto attraverso la caratteristica principale del protagonista Jacques (o co-protagonista, visto che l’autore diventa a tutti gli effetti un personaggio della storia) (3), il fatalismo. Secondo Jacques il destino degli uomini non può essere modificato dalle azioni terrene, ma è dato una volta per tutte, scritto nella “grande pergamena che sta lassù”. L’Autore dell’opera è quindi come Dio (colui che ha scritto la pergamena celeste), Jacques il personaggio della sua opera (l’essere umano creato dal Signore).

Del resto, anche noi lettori siamo come Jacques, perché se accettiamo di seguire Diderot nella narrazione finiamo per dipendere dalla sua volontà. Ma… pure Diderot finisce per trovarsi nella posizione di Jacques, al nostro livello. Se da una parte regge le redini del racconto, dall’altra non può emanciparsi dallo stile del romanzo della sua epoca, e se ne accorge. Jacques le fataliste è pervaso dalla volontà di innovare la struttura del romanzo, ma si scontra con il gusto del suo tempo: è una sfida, che rende ai miei occhi l’opera appassionante.

Attenzione, quando parlo dei limiti stilistici dell’epoca non mi riferisco a quelli colti attraverso un’analisi svolta a posteriori, come quella di Auerbach (che nel suo studio della rappresentazione del realismo individua particolari caratteristiche dello stile medio del romanzo borghese del XVIII secolo); mi riferisco alla percezione che ha Diderot stesso di sé come scrittore, ovvero nel momento in cui scrive.

La velocità con cui si dipana all’inizio la storia di Jacques e del suo signore, piena di fatti diversi in rapida successione, si arena quando i due fanno tappa alla locanda di un’ostessa chiacchierona. Lei, racconterà loro (e a noi lettori), una vicenda secondo la più classica delle strutture: premesse, sviluppo e conclusione. È uno schema narrativo totalmente distante da quello che avevamo incontrato fino ad allora. Durante la storia di Mme de La Pommeraye (l’amante perduta del marchese des Arcis), il romanzo diventa una novella, anzi, una raccolta di novelle, anzi, lo era sempre stato, ci viene da pensare (successivamente toccherà al marchese raccontare la storia del suo segretario, così come prima ancora Jacques aveva narrato quella dell’amicizia/odio fra il suo ex-capitano dell’esercito e un altro ufficiale), e Diderot se ne accorge. La struttura metatestuale del romanzo si sbiadisce. Me ne accorgo io, il lettore.

Me ne accorgo quando Diderot si sente in dovere di giustificare l’eloquenza dell’ostessa. Com’è possibile che una locandiera racconti una storia con la proprietà di linguaggio e la speditezza di uno scrittore? Com’è possibile che conosca le cose del gran mondo, di uno strato sociale cioè superiore al suo? Diderot mette queste domande in bocca al signore di Jacques, che alla fine, interrogandola più volte, ottiene dalla donna una risposta: i casi della vita le hanno permesso di accedere a un’educazione più alta di quella che si addice al suo status attuale.

Ecco, il narratore si giustifica, deve rendere plausibile a noi lettori un elemento della trama: è la prima volta che la coerenza del racconto viene posta in discussione. Da questo momento, per buona parte della storia, la discontinuità del ritmo narrativo viene resa soprattutto attraverso le interruzioni di Jacques e del suo signore, la più forte delle quali è l’episodio che anacronisticamente mi viene da definire della dialettica servo/padrone (Jacques dimostra al suo signore di essergli indispensabile, più di quanto l’altro lo sia per lui) (4).

Alla fine, quando le condizioni atmosferiche permettono ai viaggiatori di lasciare la locanda per continuare il viaggio, il romanzo riprende la velocità che lo connotava all’inizio, e la conclusione giunge improvvisa, in un precipitare di eventi che stride con le storie ben strutturate della locanda.

Diderot, all’interno dei vincoli stilistici del suo tempo, si è cimentato in un’opera d’avanguardia. Non è riuscito a mantenere un ritmo e un’atmosfera omogenei, ma ha lanciato un’idea, ha percorso per un gran tratto la strada che aveva scelto e quando si è reso conto lucidamente dei suoi limiti li ha affrontati, ottenendo un buon risultato. Ma la cosa che mi affascina in questo libro è come Diderot affronti il tema della libertà, facendone non il soggetto di un’opera d’arte, bensì incarnandolo nella forma stessa dell’opera: è questo che Diderot persegue e raggiunge.

Ovviamente, Jacques il fatalista e il suo signore non è un romanzo postmoderno, è una creazione del Settecento francese. Anche per questo risente di quei registri espressivi che mette in discussione senza potersene emancipare del tutto, e dietro le righe scorgiamo l’ombra di altri grandi autori contemporanei che Diderot ha letto e apprezzato, spesso citandoli a chiare lettere.

Fra questo romanzo e l’avventura dell’autore nella redazione de l’Encyclopédie, o nella persecuzione che subì per le sue idee (finì in carcere per qualche mese) io ci scorgo un’intima continuità. Per come Diderot ha posto lucidamente la sua attenzione alla forma dell’opera d’arte per rendere il contenuto – il perseguimento della libertà – Jacques il fatalista e il suo signore è un romanzo che sprigiona voglia di vivere e di agire, come un viaggio in macchina con i finestrini aperti, ascoltando Le nozze di Figaro, magari. In estate.
(Io però l’avevo detto subito che non avrei usato il tono serio dei saggi…)

Potete leggere il romanzo qui.
Il testo che ho letto io, provvisto di una breve introduzione anonima, non ha il curatore indicato da nessuna parte. L’editore è Bokking International (mai sentito prima), Parigi, e il libro è stato stampato in Francia (La Flèche) nel 1993. Sulla quarta di copertina appare la rassicurante dicitura “TEXTE INTÉGRAL” (così, maiuscoletto e corsivo)… sarà vero?

NOTE
(1) Comment s’étaient-ils rencontrés? Par hasard, comme tout le monde. Comment s’appelaient-ils? Que vous importe? D’où venaient-ils? Du lieu le plus prochain. Où allaient-ils? Est-ce que l’on sait où l’on va? Que disaient-ils? Le maître ne disait rien; et Jacques disait que son capitaine disait que tout ce qui nous arrive de bien et de mal ici-bas était écrit là-haut. (p. 13)
(2) “In una parola, la mia opera è digressiva, e progressiva, – a un tempo.” (La vita e le opinioni di Trstram Shandy, gentiluomo; p. 70 Traduzione e cura di Lidia Conetti, Milano, Mondadori, 1992)
(3) Vedi questo passo: “Il giorno seguente Jacques si levò di buon ora, mise il capo fuori dalla finestra per vedere che tempo faceva, vide che faceva un tempo detestabile, si rimise a letto e ci lasciò dormire, il suo signore e me, finché a noi piacque.” (p. 112, traduzione mia). Il narratore sembra dormire nella stanza della locanda, accanto al signore e a Jacques.
(4) Che Hegel abbia preso spunto proprio da questo romanzo?