LA BRUTTA FINE DI WALTER WHITE

Un camper sfreccia sbandando nel deserto e un paio di calzoni cade dal cielo davanti al suo finestrino. Non è credibile ed è l’inizio di Breaking Bad.

Sono uno di quelli che ha visto la serie televisiva americana creata da Vince Gillian e prodotta fra il 2008 e il 2013, che ha riscosso ampi consensi di critica e pubblico. È piaciuta molto anche a me, ma non fino in fondo. Eppure prometteva bene.

Breaking Bad
La brutta fine di Walter White

Breaking Bad parla di un uomo, Walter White (interpretato da Bryan Cranston), che pochi giorni dopo il suo cinquantesimo compleanno scopre di avere un cancro ai polmoni ormai non più non operabile. Lui insegna chimica alle superiori e per arrotondare lavora part-time in un autolavaggio. Ha un figlio di quasi 16 anni portatore di handicap e la moglie ha scoperto da poco di essere nuovamente incinta. Che ne sarà della sua famiglia quando lui sarà morto? Una serie di coincidenze lo fa diventare un “cuoco” di metanfetamine.

Ecco, se non avete ancora visto il film, fermativi qui, perché svelo la trama; se invece l’avete già visto, proseguite pure la lettura.

L’inizio della serie alterna momenti divertenti a pezzi drammatici. Il lato divertente del racconto sta nel mostrarci una persona normale, come noi, senza alcuna esperienza criminale, che si cimenta con la produzione e lo spaccio di stupefacenti. Proprio la sua inadeguatezza, e il dover progressivamente affrontare dilemmi sempre più tragici (uccidere o no, un criminale che non esiterebbe a uccidere te, e soprattutto la tua famiglia?), rende plausibile la narrazione che ci troviamo di fronte: non vediamo nel protagonista una persona sicura, bensì sempre incerta o addirittura tormentata, come è proprio di chi si misura con qualcosa di nuovo e complicato.

Il modello narrativo di Breaking Bad infatti è quello del romanzo ottocentesco: il narratore presenta una storia dove il lettore si immedesima nel protagonista del romanzo per la verosimiglianza dei fatti e dei sentimenti. Il trasferimento ideale nei personaggi del racconto avviene anche attraverso uno schema ramificato del doppio, che ha la funzione di delineare e ribadire i simboli incarnati dai personaggi.
Alter ego di Walter White è il boss dello spaccio locale, Gus Fring (Giancarlo Esposito). L’opposizione White/Fring, giocata anche sui “colori” dei due personaggi (Gus ha la pelle nera, “black”, mentre White significa “bianco”), si trasforma a poco a poco in un confronto fra eguali: White diventa Black. Ci troviamo cioè di fronte a una corrispondenza complementare: il buono in un primo tempo opposto al cattivo, diventa cattivo quanto il suo antagonista.

I rimandi al doppio fra personaggi riguarda anche Jesse Pinkerman (Aaron Paul), il coprotagonista che incarna colui che non perde mai la propria umanità, e che affiancandosi a Walter White rappresenta un’ulteriore corrispondenza di opposti: ricopre nella coppia di partner il ruolo del subordinato, White è la mente, Jesse il braccio. Ma White, per quanto spesso dimostri insofferenza per Jesse, non arriva mai a disprezzarlo, bensì ha un atteggiamento protettivo (complice il senso di colpa per aver causato la morte della sua ragazza, Jane). C’è quindi un rapporto del doppio anche fra la figura del figlio vero e proprio, Walter Junior (RJ Mitte) e Jesse.
Lo stesso rapporto che si instaurerà fra Jesse e Todd (Jesse Plemons), il nuovo braccio destro di Walt quando il primo lascia l’attività. Todd incarna il lato doppio di Jesse in maniera complementare, poiché simboleggia il male assoluto: è uno psicopatico per cui la vita e il dolore degli altri non rappresentano nessun deterrente al raggiungimento del proprio obiettivo. Non è un caso che il finale del film preveda il confronto risolutivo fra i due ragazzi.

La verosimiglianza della narrazione è costruita anche attraverso personaggi minori con una precisa connotazione umana, quali l’avvocato Saul Goodman (Bob Odenkirk), e il poliziotto in pensione Mike Ehrmantraut (Jonathan Banks). Proprio perché sono descritti in maniera autentica si sono guadagnati il ruolo rispettivamente di protagonista e coprotagonista nello spin-off nato da Breaking Bad: Better Call Saul.
Anche il personaggio del cognato di Walter White, Hank (Dean Norris), agente della D.E.A., si distingue per la precisione con cui è reso. Ripeto: la cura dei dettagli caratteriali è funzionale alla nostra immedesimazione nel racconto attraverso il principio della verosimiglianza.

Ma proprio questo principio a un certo punto, dalla terza serie in poi, si incrina. Perciò io trovo che Walter White, e Breaking Bad con lui, facciano una brutta fine.

Avevo detto che lo schema narrativo adottato è quello del romanzo ottocentesco. Pensiamo a Delitto e castigo di Dostoevskij.
Troviamo convincente il travaglio interiore di Roskolnikov perché ragiona come noi, nel senso che siamo in grado di capire i suoi percorsi logici, e decidendo di procedere nella lettura finiamo per farli nostri. Troviamo anche plausibili, nel senso di spiegati in maniera sufficientemente credibile, alcune sue azioni pratiche, come nascondere un’ascia sotto il cappotto, dopo aver cucito nella fodera interna una corda a cui appendere l’arma del delitto premeditato.
Pensieri e gesti pratici in questo modello di letteratura non sono lasciati al caso, ma devono essere rigorosamente verosimili. Quando si produce un colpo di scena, anch’esso deve essere plausibile, non è accettabile trovarsi davanti agli occhi il prestigiatore che tira fuori il coniglio da cilindro… a meno di non trovarsi davanti a uno spettacolo di giochi di prestigio.

La tecnica dei colpi di scena è funzionale a particolari generi di letteratura, come il thriller, ad esempio. Un maestro in questo caso è Michael Connelly. In molti dei suoi romanzi il colpo di scena arriva alle ultime 100 pagine del libro, quando ormai la vicenda sembra risolta e poi si scopre che non lo è affatto, perché la si era guardata fino ad allora da una prospettiva sbagliata. È come se una telecamera allargasse il campo dall’alto sul corso di un fiume, rivelando allo spettatore che il tratto a cui era giunto seguendo i suoi affluenti non fosse a sua volta che un altro tributario del vero fiume principale. E finalmente in quelle acque il lettore si rende conto di quanto sia profonda la verità, proprio per la capacità di Connelly di rendere tutto plausibile.

Buona parte di Breaking Bad si regge su colpi di scena inverosimili.
Non ho mai capito la morte di Victor (interpretato da Jeremiah Bitsui, stagione 4, episodio 1), lo scagnozzo di Gus. Nel film si forniscono due interpretazioni, ma io non le trovo convincenti. Posso escogitarne una terza, ma gli sceneggiatori hanno già tradito la loro missione, che è quella di presentarmi una realtà, e non di indurre a spiegarmela. Alla fine l’unica ragione che rende plausibile l’omicidio di Victor è che mi trovo davanti a un coniglio estratto dal cilindro. E non mi piace.

Un altro colpo di scena funzionale al lungo finale di Breaking Bad (fine quarta stagione, e tutta la quinta), è quello della sigaretta avvelenata di Jesse. La sua sottrazione permette a Walter di far credere a Jesse che qualcun altro, e non lui, l’abbia usata contro Block, il figlio della sua nuova compagna. Per completare l’inganno è però necessario che il pacchetto iniziato delle sigarette di Jesse torni nella sua tasca senza che lui se ne accorga. Ci viene mostrato il momento in cui il pacchetto gli viene sottratto, quando il gorilla di Saul Goodman lo perquisisce (stagione 4, episodio 12), ma non quando gli viene rimesso in tasca. Come sarebbe potuto accadere? Non sarebbe potuto, è solo un altro coniglio che spunta dal cilindro. Anche perché Walter, stando allo stesso racconto del film, avrebbe avuto solo poche ore per ideare e mettere in atto il piano.

A proposito di verosimiglianza, avete mai sostituito il contenuto di una bustina di dolcificante con un veleno? Scommetto che non siete mai riusciti a chiudere la bustina in modo da non destare sospetti. Una bottiglia d’acqua, di plastica o vetro, può essere richiusa in maniera ingannevole, in modo da dover usare il cavatappi per stapparla (tappo a corona) o che scricchioli come si deve quando lo sviti (tappo di plastica). Ma una bustina di Dietor (o Stevia), no. E se doveste mettere la bustina in un locale pubblico contando sul fatto che il vostro bersaglio sceglie sempre la stessa ora e lo stesso tavolo, dovreste sperare che il tavolo sia libero. No, io credo che voi scegliereste un revolver e un vicolo buio. Io faccio sempre così.

Queste che ho elencato sono carenze della sceneggiatura dovute al tradimento a quella verosimiglianza degli avvenimenti che soprattutto nella seconda stagione (a mio parere la migliore), mi hanno fatto affezionare a Walter White.
Ci sono poi le carenze nella resa del profilo psicologico di alcuni personaggi, almeno in certi momenti, che non so se attribuire alla sceneggiatura o alla recitazione (o, in quest’ultimo caso, magari alla regia).
Mi riferisco al personaggio di Jesse all’inizio della Stagione 3, quando appare più uno sballato cronico che un ragazzo disperato; o Walter sempre in quella stagione, che viene rappresentato più come un irascibile nevrastenico piuttosto che un uomo sotto pressione per uscire dal vicolo cieco in cui si è cacciato.
Trovo poi penosa, perché poco credibile, la recitazione di Skyler (Anna Gunn), la moglie di Walter White, in tutta la quarta stagione.

Walter White, per queste ragioni, fa una brutta fine. Eppure… quando guardo le ultime inquadrature e cominciano a suonare le prime note dell’ultima canzone del film, non posso fare a meno di provare una fitta di malinconia. Significa che Breacking Bad ha fatto risuonare una corda dentro di me. Quale?

Per me Walter White rappresenta chi si perde per trovare se stesso. Perdersi non nel senso di infrangere la legge, ma di non riuscire a salvare tutto, tutte le persone a cui teniamo, tutte le cose a cui non vorremmo rinunciare, per tirare fuori quello che nonostante tutto, anche nel male, noi siamo.

Ecco perché quando parte Baby Blue dei Badfingers, non posso fare a meno di provare una fitta di malinconia. (Almeno fino all’inciso, dopo… è troppo Swinging London per i miei gusti.)

Una risposta a “LA BRUTTA FINE DI WALTER WHITE”

  1. Un commento così competente e gustoso merita che io mi avvicini a questa opera. ciao

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