L’identità di Kundera

Fotogramma del documentario "Milan Kundera: l'insostenibile leggerezza della storia", di Jarmila Buzkova, disponibile su Arte
Fotogramma del documentario “Milan Kundera: l’insostenibile leggerezza della storia”, di Jarmila Buzkova, disponibile su Arte

C’è un marito che cammina sulla spiaggia. Cerca sua moglie. È appena giunto nella località di mare dove lei ha pernottato la sera prima e in albergo gli hanno detto che era andata in spiaggia. A un tratto la vede, si sbraccia per salutarla ma lei sembra non accorgersi di lui, che nel frattempo si allarma, perché vede alle sue spalle un veicolo su ruote mosso da vela correrle incontro sulla battigia. Allora grida il suo nome per avvertirla, ma il vento forte gli cancella la voce e lui si sente impotente, quasi disperato. Alla fine non succede nulla. Lui continua ad avvicinarsi alla moglie, ma quando si trova a pochi passi da lei si accorge che è un’altra donna, e per di più non le assomiglia affatto. Com’è possibile, si chiede, che non sia riuscito a riconoscere la donna che ama, quella che considera impareggiabile fra tutte le altre?

Questa scena appare nelle prime pagine de L’identità, di Kundera (Gallimard, 1997), e ci prepara a un’altra scena, che è sempre determinata dall’azione di guardare l’altro, e di come siamo guardati da lui. Quando Jean-Marc, il marito della donna, Chantal, la ritrova in albergo, vede che le è successo qualcosa, perché è turbata. Allora le chiede subito: “Cos’è successo?”, ma lei non gli risponde. Noi sappiamo cos’è successo, aveva chiesto, nel bar sulla spiaggia dove era andata a prendere un caffè, che si abbassasse il volume eccessivo della musica, e per tutta risposta i due uomini del personale, cameriere e barista, l’avevano alzata ancora di più. Dallo scambio di battute riportate da Kundera si capisce che i due la deridono. Ecco cos’era successo, ma quando Chantal, di fronte al ripetere della domanda di Jean-Marc alla fine risponde, dice: “Gli uomini non si voltano più a guardarmi”.

Chantal sintetizza la spiacevolezza dell’incontro nel bar con la perdita della sua mancanza di fascino sugli uomini. In effetti, ho pensato io leggendo la risposta della moglie turbata al marito in apprensione, il comportamento sgarbato dei due impiegati del bar si può spiegare anche così: di fronte a una donna attraente, magari giovane (cosa che Chantal non è più), avrebbero assecondato la richiesta della cliente. “Gli uomini non si voltano più a guardarmi”, significa: ho capito di non essere più giovane e bella.

Kundera non ci dice quanti anni abbia Chantal, ci informa solo che ne ha qualcuno in più di Jean-Marc, e noi, da alcuni indizi sulla sua biografia, potremmo pensare che la donna sia sulla cinquantina. Ciò che però conta è che è lo sguardo degli altri a far sentire invecchiata la protagonista femminile del romanzo.

Jean-Marc, amando la moglie, per tirarla su escogita un piano: le fa trovare dei biglietti anonimi di un uomo che la spia. E lei, almeno finché non scopre che è lo stesso Jean-Marc a scrivere quelle missive, si sente ringiovanire all’idea di qualcuno che ancora la desideri.

Non è mia intenzione raccontare la trama precisa de L’identità, ma di sottolineare come Kundera in questo libro continui un discorso sull’identità già affrontato nella sua opera precedente, La lentezza (di cui ho parlato qui). Ancora una volta l’essere è confrontato con l’essere visto. E ancora una volta la maestria di Kundera sta nel riuscire a rappresentare artisticamente un tema filosofico, attraverso un romanzo dove la narrazione si svolge ripetendo diverse situazioni, per offrire i differenti punti di vista dei due protagonisti.

Ma è con l’opera successiva, L’ignoranza (Gallimard, 2001), che Kundera approfondisce il discorso sull’identità, e in una maniera che mi affascina, poiché la lega alla nostra memoria labile. Noi non solo non possiamo ricordare tutto, ma i ricordi si aggiustano, si modificano, o si cancellano (operando una vera e propria rimozione di avvenimenti traumatici o imbarazzanti); ma allora, se non abbiamo il controllo della nostra memoria, come possiamo essere sicuri della nostra identità? Mi viene da rispondere che l’identità è comunque una costruzione, e che si basi su ricordi veri o falsati non è poi così importante, perché più della verità conta la realtà percepita, però la mia risposta è solo un punto di vista; ciò che conta è il fascino della questione focalizzata da Kundera in questo romanzo.

Molti anni fa, nel mio primo romanzo, uno dei temi affrontati era proprio l’identità costruita attraverso la memoria. Avevo trovato soddisfacente la definizione a cui ero giunto: siamo un io in divenire che aggiusta i ricordi (la sua storia) per dare forma alla sua personalità. Ma leggendo L’ignoranza mi accorgo che Kundera è andato oltre. Ė riuscito a costruire un romanzo rendendo tangibile il processo di modificazione e alterazione della nostra memoria.

Kundera pone l’attenzione pure su un altro tema dell’identità: così come non siamo padroni della memoria che ci appartiene e forma, non possiamo nemmeno controllare i ricordi di un’altra persona. Magari siamo convinti che lei abbia vissuto come noi la stessa esperienza condivisa, ma quando ciò non è vero finiamo per attribuirle una personalità falsata. Questa, in sintesi, è la trama de L’ignoranza: un uomo e una donna, esuli della Cecoslovacchia sovietica, vi fanno ritorno anni dopo la caduta del muro di Berlino. Da adolescenti hanno avuto una breve storia, ma solo lei, la donna, mantiene un vivo ricordo di quell’avvenimento. Lui quando la vede sa di conoscerla, ma non ricorda chi sia. Eppure fra loro si riallacciano i legami. Da questa situazione, fondata su un’ignoranza di fondo (l’uno ignora come l’altro viva il ricordo), si sviluppa la storia, dove all’ignoranza dei due protagonisti si aggiunge quella delle persone che essi ritrovano in Boemia dopo molti anni. Ognuna di queste infatti proietta sugli esuli rientrati la propria idea di esilio e ritorno; sbagliando.

A proposito di identità, non posso fare a meno di interrogarmi su quella di Kundera come autore.

In quasi tutti i suoi romanzi che finora ho letto (Il libro del riso e dell’oblio, L’insostenibile leggerezza dell’essere, L’immortalità, la “tetralogia francese”), ad eccezione del Valzer degli addii (1972) non leggiamo mai una storia raccontata da qualcuno, ma di qualcuno che inventa una storia. Lo scrittore si mostra nell’atto della sua creazione, cosicché il lettore non si trova mai di fronte al bisogno di sospendere l’incredulità per affidarsi alle pagine scritte offerte ai suoi occhi: è sempre consapevole di stare ascoltando un discorso attorno a un argomento, a un tema. Quasi come un saggio. Quasi, perché le considerazioni filosofiche sono sempre accompagnate da una storia che le esemplifica.

Uno degli esempi più eclatanti di questo modello letterario, quello che mi ha impressionato di più, si trova nelle prime pagine de L’immortalità (1990), dove l’autore mostra al lettore come è nata per lui la storia che sta raccontando. Un personaggio, colui che racconta, si trova nel bar di una piscina in attesa di un amico e nel frattempo osserva una signora anziana mentre prende lezioni di nuoto da un giovane istruttore. Esegue le istruzioni con una “comicità commuovente”, quindi la signora è goffa, ma quando la lezione finisce e lei esce dall’acqua, dopo aver percorso qualche passo si volta verso il giovane rivolgendogli un sorriso e un gesto di saluto:

“Era come se avesse lanciato in aria una palla colorata per giocare con il suo amante. […] In quel gesto una qualche essenza del suo fascino, indipendente dal tempo, si rivelò per un istante e mi abbagliò. Ero straordinariamente commosso. E mi venne in mente la parola Agnes. Agnes. Non ho mai conosciuto una donna con questo nome.”

(trad. Alessandra Mura, I grandi romanzi Corriere della sera, per Adelphi, 1990, pag. 10)

Agnes. Questo nome rimane impresso nella mente del narratore che più avanti scopriremo chiamarsi Kundera, autore di un romanzo chiamato La vita è altrove e un altro L’insostenibile leggerezza dell’essere. Pochi capoversi dopo egli (l’io narrante dell’opera e l’autore) si risveglia nel suo letto scoprendosi di stare immaginando in Agnes una dei protagonisti del suo nuovo romanzo:

“Al mio risveglio erano ormai quasi le otto e mezzo e stavo immaginando Agnes. È stesa su un ampio letto propio come me. Il lato destro è vuoto. Chi sarà mai suo marito? Evidentemente qualcuno che il sabato mattina esce di casa presto. Per questo è sola e si dondola dolcemente tra la veglia e il sonno.

(pag. 13)

Questa Agnes, l’Agnes inventata, non è più una donna anziana, ma giovane. Passando per la fascinazione del gesto di saluto della donna in piscina, che aveva suscitato in Kundera un nome inventato, il nome si era incarnato in un personaggio. Kundera ci ha reso partecipi del momento in cui gli è venuta l’ispirazione per scrivere il romanzo e noi non possiamo dimenticare nemmeno per un attimo che sotto ai nostri occhi si dipana la trama di un’invenzione. Quando scorgeremo Agnes ripetere il saluto della signora anziana non potremmo fare a meno di pensare al gesto che aveva attirato l’attenzione di Kundera; quel gesto stabilirà il gioco del doppio fra la realtà dello scrittore che inventa e l’invenzione di cui fruiamo come lettori.

Del resto, il gioco del doppio si stabilisce anche all’interno dell’invenzione, poiché Agnes in realtà l’aveva interiorizzato scorgendolo in un’altra donna (forse l’amante del padre), così come la sorella minore (scorgendolo in Agnes) lo interiorizzerà a sua volta. Quella eco che ritorna nel romanzo non può fare a meno di suscitare in noi il legame con il momento dell’inizio dell’invenzione. Realtà e finzione sono inscindibili.

Milan Kundera, al pari di molti altri autori di cui parlo in questo sito-web, predilige un modello letterario in cui la finzione è sempre legata al gesto da cui è scaturita.