L’ “ORA” DI ITALO CALVINO

città sottileLa prima città descritta ne Le città invisibili, il libro che Italo Calvino pubblica per Einaudi nel 1972, si chiama Diomira. Essa appare al viaggiatore che si muove da un indefinito “di là” proseguendo per tre giornate; non viene detto se a piedi o a cavallo, al passo di carovana o altro. Diomira possiede cupole d’argento, statue in bronzo e ulteriori bellezze comuni ad altre città. Ciò che invece la rende unica è una caratteristica:

“Ma la proprietà di questa è che chi vi arriva una sera di settembre […] gli viene da invidiare quelli che ora pensano di aver già vissuto una sera uguale a questa e d’esser stati quella volta felici.” (1)
Ora… quando? Adesso, in questo momento: “ora” indica l’esatto presente. Non ci troviamo quindi di fronte a un viaggiatore che in una sera di settembre invidia chi in un momento del passato ha vissuto una sensazione simile a quella che egli prova adesso, ma invidia chi pensa di averla vissuta, quella sensazione, ora. (2)

L’avverbio di tempo scelto implica che il complemento oggetto sia situato fuori dal testo: il viaggiatore non invidia coloro che come lui hanno vissuto una sera simile, ma quelli che, nel momento in cui ascoltano le parole del narratore, ricordano di averla vissuta, ovvero i lettori, e non i viaggiatori capitati a Diomira prima del pellegrino.

Calvino cessa la finzione letteraria e si affaccia dalla pagina dicendo che sì, quella è un’opera che ha scritto lui e il lettore c’è finito dentro, è entrato a far parte dell’invenzione. È la quarta parete del teatro della crudeltà che viene meno, il gesto che annulla la distanza fra la rappresentazione e lo spettatore, facendo coincidere letteratura e realtà.

La strategia che Calvino segue per raggiungere tale risultato è uno sguardo doppio sulla materia letteraria: il racconto di una cosa non coincide mai con la cosa stessa, ma le aggiunge senso. Questa è una verità valida per ogni prodotto artistico, dove il messaggio è costituito dalla forma con cui viene confezionato, ma la particolarità di Calvino è quella di usare in maniera esplicita pure questo aspetto della finzione per confezionarla.

Si tratta di un percorso iniziato in maniera manifesta con Le cosmicomiche (1965) e sviluppato in Ti con zero (1967).
È nelle Cosmicomiche che appare il personaggio Qfwfq, l’eroe che fin dal nome impronunciabile si richiama alla dualità fra tema e testo: ciò che l’autore vuole raccontare non può prescindere dal segno della scrittura. Noi lettori ci troviamo di fronte a qualcosa che non si può pronunciare, eppure essa è comunque provvista di significato.
Nel racconto Un segno nello spazio Qfwfq diventa chiaramente la figura metaforica dello scrittore: corpuscolo del sistema solare in formazione, Qfwfq sente il bisogno di lasciare un segno di sé nella Via Lattea, al tempo in cui non esiste ancora il concetto di segno. Una volta tracciato, non vede l’ora che si compia la Rivoluzione del Sole attorno alla galassia (200 milioni di anni) per poterlo rivedere:

“Adesso però non era il motivo per cui l’avevo fatto che m’importava, ma il com’era fatto, e mi misi a fare ipotesi su questo come, e teorie secondo le quali un dato segno doveva essere necessariamente in un dato modo, o procedendo per esclusione provavo a eliminare tutti i tipi di segni meno probabili per arrivare a quello giusto…” (3)

L’autore primordiale rappresentato da Calvino non fa in tempo a esprimere una manifestazione grafica di sé che si interroga sulla grafia, così come, del resto, il mollusco Qfwfq del racconto La spirale (lo stesso personaggio in un periodo evolutivo successivo), che desiderando manifestarsi alla femmina di cui è innamorato si fa crescere la conchiglia, nella speranza di essere visto da lei:

“Cioè io producendo la conchiglia ne producevo anche l’immagine…” (4)

La conchiglia è un prodotto che deve attirare l’attenzione, deve stupire, e allo stesso tempo esprimere l’essenza del suo autore… stiamo parlando dell’opera d’arte e dell’artista, dell’autore e della sua opera. Ecco, anche in questo caso, nel momento in cui il mollusco/autore realizza la conchiglia non può fare a meno di riflettere sul segno che essa lascia nel mondo. Il dire, per Calvino dal 1965 in poi, non può prescindere dalla riflessione sul come si dice.

In altri personaggi troviamo l’identificazione fra il sé e il segno impresso, e non solo quando Qfwfq è una cellula che per amore di se stessa si sdoppia, come nel racconto Mitosi in Ti con zero (5), ma anche quando il protagonista del racconto è un ragazzo che ha litigato per telefono con la ragazza (Y), e si precipita da lei in macchina coprendo la distanza fra la sua città (A) e quella della fidanzata (B), sperando che lei non abbia già chiamato lo spasimante sfortunato (Z), come succede ne Il guidatore notturno.
In questo sistema di coordinate (dove a me viene da pensare che il protagonista sia X), il ragazzo immagina se stesso e gli altri personaggi come due oggetti (le automobili guidate) che con il loro movimento si esprimono:

“Ora due macchine che vanno in direzioni opposte si sono trovate per un secondo affiancate […] forse eravamo noi, ossia è certo che io ero io […] e l’altra poteva essere lei, cioè quella cha io voglio che sia lei, il segno di lei in cui voglio riconoscerla… […] Correre sull’autostrada è l’unico modo che ci resta, a me e a lei, per esprimere quello che abbiamo da dirci…” (6)

Il ragazzo si sente trasformato, nel suo viaggio dentro l’automobile fra A e B, in “messaggio”: ciò che deve dire a Y coincide con il volerla andare a trovare in quel frangente, e ciò che egli desidera da lei è che lei si precipiti da lui. La grafia di questi messaggi sono le luci delle auto che corrono nella notte: come per il mollusco e per la cellula, l’autore del messaggio coincide con il segno che traccia nello spazio.

Calvino è enormemente interessato alla relazione fra segno e messaggio, su come l’intonazione della scrittura modifichi la ricezione del testo, formandolo. È la posizione di chi ha nei confronti della scrittura un atteggiamento ambiguo: riconosce la sua forza, ma sa che può falsificare la realtà, e allora non può fare a meno di mettere in discussione ogni certezza, non perché non sia capace di assumere posizioni nette, ma perché sa che ogni asserzione, per quanto assoluta… è relativa.

Il distacco operato nei confronti della letteratura produce una distanza, spesso incarnata, in Calvino, nell’ironia. È lo stesso atteggiamento che troviamo in Montale, e che ha spinto Pier Paolo Pasolini a stroncare violentemente un’opera come Satura.
C’è una differenza importante fra lo scrivere pensando di poter superare lo scarto fra il segno e la realtà che il segno vuole rappresentare, e scrivere sapendo che l’arte può attingere ciò che è reale solo in una scala di approssimazione. È una differenza identificabile nel binomio vero/reale: la verità è sempre una scelta.

Nell’articolo su Robbe-Grillet citavo due esempi di letteratura per cui lo strumento della scrittura è privo di distorsioni, aggiungo ora il nome di un altro autore che stimo: Pasolini. Tutta la sua opera, in particolare per quella produzione felice fra il ’55 e il ’64 (eccettuato il romanzo meno riuscito Una vita violenta) che lo rende uno dei maggiori poeti e scrittori del ‘900, è percorsa dalla volontà di trovare la parola perfetta in grado di restituire la realtà. Non è un’ambizione/ispirazione solo sua, ci mancherebbe, quello che voglio dire qui è che lui rappresenta un altro lato della scrittura, diverso da quello di Calvino, per cui la pagina scritta (o il racconto di un testimone oculare), non coincidono mai con l’evento vissuto.

Ne Le città invisibili Calvino affida le riflessioni su tema e testo (messaggio e segno) alle pagine di raccordo fra le nove sezioni in cui è diviso il libro, dove un narratore onnisciente descrive il rapporto fra Marco Polo e il Gran Kan dei “Tartari”, Kublai. Il mercante veneziano è stato incaricato da Kublai Kan di descrivergli le città del suo impero, e ciò anche prima che egli apprendesse le “lingue del Levante”. In questo modo Marco “non poteva esprimersi altrimenti che con gesti, salti, grida di meraviglia e d’orrore, latrati o chiurli d’animali, o con oggetti che andava estraendo dalle sue bisacce…” (7)

La parola quindi è sostituita da un segno animalesco, non rappresentabile, quasi a capovolgere il valore del nome Qfwfq, dove il segno sostituiva il suono. Non cambia però il rapporto fra messaggio e segno:

“Ma, palese o oscuro che fosse, tutto quel che Marco mostrava aveva il potere degli emblemi, che una volta visti non si possono dimenticare né confondere. […] Col succedersi delle stagioni e delle ambascerie, Marco s’impratichì della lingua tartara… I suoi racconti erano adesso i più precisi e minuziosi che il Gran Kan potesse desiderare… eppure ogni notizia su di un luogo richiamava alla mente dell’imperatore quel primo gesto o oggetto con cui il luogo era stato designato da Marco. Il nuovo dato riceveva senso da quell’emblema e insieme aggiungeva all’emblema un nuovo senso.” (8)

Se in questo passaggio sembra che segno e messaggio si completino a vicenda, le cose non sono tanto semplici altrove, dove all'”emblema” viene conferita maggiore capacità comunicativa:

“…certo le parole servivano meglio degli oggetti e dei gesti per elencare le cose più importanti d’ogni provincia e città […] tuttavia quando Polo cominciava a dire come doveva essere la vita in quei luoghi… le parole gli venivano meno, e a poco a poco tornava a ricorrere a gesti, a smorfie, a occhiate.” (9)

E Calvino arriva a mettere in bocca a Marco Polo questa sentenza:
“Non c’è linguaggio senza inganno.” (10)

È una citazione tratta dalla descrizione della città di Ipazia, dove le cose suscitano desideri disattesi. Quando Marco chiede spiegazioni di ciò a un filosofo, si sente rispondere:

“- I segni formano una lingua, ma non quella che credi di conoscere -. Capii che dovevo liberarmi delle immagini che finora mi avevano annunciato le cose che cercavo: solo allora sarei riuscito a intendere il linguaggio di Ipazia.” (11)

Credo che questo passaggio esemplifichi al meglio il pensiero di Calvino sul rapporto fra cosa e segno: il segno è solo una delle possibilità con cui richiamiamo a noi e agli altri una cosa. Per analogia, questo è il punto da cui si può partire per capire il gioco delle combinazioni che regge Il castello dei destini incrociati (Einaudi, 1973): come le cose hanno tanti nomi, così la vita, secondo il caso, ha tante possibilità di svilupparsi. Occasioni, direbbe Montale.

NOTE

(1) Le città invisibili, Mondadori 1993, p. 7 (il grassetto è mio)
(2) Affinché il senso della frase fosse il primo, la si sarebbe dovuta scrivere così:
“Ma la proprietà di questa è che chi vi arriva una sera di settembre […] gli viene da invidiare quelli che allora avevano pensato di aver già vissuto una sera uguale a quella e d’esser stati quella volta felici”
(3) Le cosmicomiche, Mondadori, 1993, p. 36
(4) ivi p. 156
(5) “Ma quando non si può fare nessuna cosa per mancanza del mondo esterno, l’unico fare che ci si può permettere disponendo di pochissimi mezzi è quello speciale tipo di fare che è il dire. Insomma io ero mosso a dire […] e siccome l’unica cosa che avevo da dire era me stesso, ero spinto a dire me stesso, cioè a esprimermi.” Ti con zero, Mondadori, 1993, p. 65
(6) ivi pp. 128-129
(7) Le città invisibili, Mondadori, 1993, p. 21
(8) ivi p. 22
(9) ivi p. 40
(10) ivi p. 48
(11) ivi p. 48