LUIGI MALERBA E IL SALTO MORTALE DELLA LETTERATURA

Una maestra in prima elementare, il primo giorno di scuola, dice agli alunni:

“Aprite il quaderno e copiate le stanghette che ho disegnato sulla lavagna”.

In questa frase c’è un errore. Trovato? Se non lo vedete significa che non siete maestre elementari, o che non avete mai parlato con una di loro su come si insegna qualcosa a un bambino che comincia la scuola: la maestra non ha detto come aprire il quaderno. Allora ci sarà stato chi lo ha aperto nel mezzo, chi alla prima pagina, quella dell’intestazione, con le righe per scrivere nome, cognome, classe… chi capovolto… Qualcuno lo avrà aperto nella maniera giusta. In quella che per convenzione è la maniera giusta.
Tutto ciò per iniziare a parlare di Luigi Malerba che nei suoi romanzi spesso ha sovvertito la rappresentazione della realtà, scegliendo punti di vista e tecniche di narrazione spiazzanti, prendendo il lettore per le mani nella prima pagina e trascinandolo in un salto mortale nell’ultima.

Luigi Malerba

Il primo libro di Malerba, La scoperta dell’alfabeto, Bompiani 1963, è una raccolta di racconti ambientati in una campagna emiliana (Malerba era nato a Berceto, in provincia di Parma), piccoli ritratti di paesaggi umani piuttosto “normali” rispetto a quello che sarà in seguito la sua produzione, a cominciare da Il serpente, del 1966 (sempre per Bompiani). Ma già nella sua prima opera, esattamente nel racconto di apertura, ci imbattiamo nella messa in discussione delle convenzioni, iniziando dall’alfabeto, la grafia con cui uno scrittore rappresenta a se stesso e agli altri il mondo:

«Al tramonto Ambanelli smetteva di lavorare e andava a sedersi davanti a casa con il figlio del padrone perché voleva imparare a leggere e a scrivere.
“Cominciamo dall’alfabeto.”
“Prima di tutto c’è A.”
“A”, disse paziente Ambanelli.
“Poi c’è B.”
“Perché prima e dopo?” domandò Ambanelli.
Questo il figlio del padrone non lo sapeva.
“Le hanno messe in ordine così, ma voi le potete adoperare come volete.”
“Non capisco perché le hanno messe in ordine così,” disse Ambanelli.
“Per comodità,” rispose il ragazzo.
“Mi piacerebbe sapere chi è stato a fare questo lavoro.”
“Sono così nell’alfabeto.”
“Questo non vuol dire,” disse Ambanelli, “se io dico che c’è prima B e poi c’è A forse che cambia qualcosa?”
“No,” disse il ragazzino.
“Allora andiamo avanti.”» (La scoperta dell’alfabeto, II edizione, Bompiani, 1971, p. 5)

Sempre ne La scoperta dell’alfabeto troviamo un personaggio particolare, Davide, un contadino che legge i libri (suppongo ad alta voce) mentre gli altri lavorano i campi, e d’inverno, nelle sere di veglia o al capezzale di un malato, si fa pagare da bere e da mangiare per raccontare storie. Davide ha idee particolari su come si possano raccontare, ma il suo estro non è sempre apprezzato dal pubblico, disposto verso stili più convenzionali:

«Una sera a casa Gervella raccontò tutta l’Odissea all’indietro, cioè cominciando dalla fine
“Certe cose vengono bene raccontate all’indietro”, diceva Davide completamente ubriaco.
“A me non mi va bene”, disse Pinai, “è come uno che va nel campo a tagliare il frumento prima di averlo seminato.”
“Non è la stessa cosa”, insisteva Davide, “una storia si può raccontare come si vuole, certe storie vengono bene raccontate solo all’indietro e certe vengono bene anche per traverso.”
Pinai lo criticò molto, si fece restituire i soldi e poi lo mandò via.» (ivi, pp. 141-142)

Nel 1968 sempre per Bompiani Malerba pubblica Salto mortale. Sembra scritto dal contadino Davide perché, lo scopriamo solo nella penultima pagina, è raccontato al contrario. Il lettore pensa di trovarsi davanti alla storia degli avvenimenti che accadono a un personaggio, poi si accorge che quei fatti hanno una natura particolare… che io non svelo. Dico però che nel 1967 viene ritrovato, dopo la morte dell’autore il manoscritto de Il terzo poliziotto, di  Flann O’Brien, romanzo scritto nel 1940 e poi smarrito dopo diversi rifiuti editoriali. Credo che la prima edizione italiana sia quella del 1971 per Einaudi, (traduzione di Bruno Fonzi), ed è sorprendente che Malerba abbia intonato con la sua voce una canzone scoperta da O’ Brien quasi trent’anni prima.

Mi piace pensare che le opere non ci appartengano, e che noi siamo solo le antenne che le captano nell’aria vestendole con la nostra sensibilità.

Tornando a Salto mortale, troviamo il protagonista, Giuseppe, che passeggiando in campagna si imbatte nel cadavere di un assassinato. Veniamo a sapere che il morto in tasca ha un pacchetto di sigarette francesi, come il narratore, ma l’analogia si ferma lì, Malerba è bravo a distoglierci dal pensare che forse… magari… e ci abbandoniamo al resto del racconto, che fila via veloce.

Seguendo il monologo di Giuseppe sappiamo che incontra diversa gente, da lui indiziata dell’omicidio, e quasi tutti si chiamano Giuseppe, come lui, e a un certo punto cominciano a morire, come lui. A tutti chiede se conoscevano il morto, com’è stato ucciso, perché è vero che da subito si parla di un coltello, ma per scoprire poco dopo che è sprovvisto di lama, e in seguito pure di manico.

La realtà si sfalda, la donna con cui il protagonista intrattiene una relazione ha un nome incerto, Rosa, Rosina, Rosella, Rosalba, Rossella…, come se lui non riuscisse ad afferrarla, a fissarne l’identità, e noi non riusciamo a capire che rapporto li leghi. Forse è l’amante, forse la moglie, ma lei lo allatta, come una madre il suo bambino; forse, è in atto un processo di regressione…

Il tono dei discorsi di Giuseppe hanno un carattere onirico, le divagazioni logiche attuano veri e propri spostamenti spaziali, come quando, disquisendo su cosa sia un puma, il protagonista si ritrova fisicamente in America, nei luoghi che sta immaginando.

A volte Giuseppe vive veri e propri abbagli, come quando scambia una brace di sigaretta in movimento nella notte con una cometa. In quell’occasione la piccola storia del protagonista lascia il posto alla Storia con la esse maiuscola, infatti egli esclama:

«Guarda che si fanno confusioni anche peggiori di questa, una volta sei milioni di uomini sono stati confusi con

SEI MILIONI DI CANI…

… sei milioni di uomini sono andati in fumo per una confusione, si sono dispersi nell’aria e non c’è più niente da fare.» (Salto mortale, Einaudi, 1985, p. 124)

Il protagonista ha spesso di queste esclamazioni, nel suo ragionamento sulla realtà esse rappresentano lo stupore per qualcosa che afferra, o che sottolinea a se stesso. La realtà in cui si trova immerso Giuseppe non solo pare sfaldarsi, ma viene resa con lo sguardo acritico di un piccolo-borghese, sorpreso dal mutare dei tempi e dalle novità che lo circondano senza poterle spiegare. Nel suo dialogo, ad esempio, di tanto in tanto appaiono “i cinesi”, che rappresentano uno dei volti della modernità. In quegli anni la Cina aveva appena testato la bomba atomica, impressionava per il numero dei suoi abitanti e per la Rivoluzione culturale; Mao appariva come l’alternativa all’Occidente, diviso fra il capitalismo degli Stati Uniti e dei loro alleati e il comunismo dell’Unione Sovietica e dei suoi satelliti . Allo stesso modo in cui l’italiano medio nel ’68 generalizzava tutto il movimento studentesco con “i cinesi”(1), anche lo stupore per lo sterminio degli ebrei non è il risultato di una riflessione sugli avvenimenti che l’hanno prodotto, bensì la considerazione per un fatto eccezionale e isolato.

Giuseppe si muove in una realtà sfuggente, dicevo, e l’inadeguatezza del protagonista nei suoi confronti si coglie fin nel linguaggio, come del resto in tanti altri personaggi dei libri di Malerba, quale il protagonista de… Il protagonista (Bompiani 1973). Qui, per fare solo un esempio, spesso appare l’inversione dei complementi (“è meglio non la disturbare”), corretta grammaticalmente, ma poco usata, e che esprime la fatica di articolare un discorso, ovvero di interagire con il mondo in cui si è immersi(2).

L’incertezza del protagonista rispecchia l’incertezza della forma del romanzo. Così come in Salto mortale solo alla fine scopriamo di aver vissuto in un inganno (perché la realtà presentataci era un’altra cosa da quello che avevamo creduto fino ad allora), anche nel precedente Il serpente ci eravamo trovati di fronte a un romanzo traditore, perché il protagonista, che coincide ancora una volta con l’io narrante, quasi a metà libro si dichiara un bugiardo:

«Veramente ho mentito quando ho detto di essere sposato. Non ho mai avuto una moglie o qualcosa del genere.» (Il serpente, Mondadori, 1989, p. 99)

In pratica la realtà a cui ogni lettore si affida ogni volta che legge un’opera di narrativa non è più affidabile, o almeno non in questi casi. Questo tipo di romanzi mette in discussione la sicurezza della lettura; il lettore non può abbandonarsi tranquillamente a una storia, ma deve sempre interrogarsi sul senso di ciò che legge. Coerentemente con tale impostazione i personaggi delle opere sono alienati, devono prima di tutto cercare di imporre a se stessi la loro stessa presenza:

«…mi feci un piccolo taglio al dito, un segno per non confondermi con gli altri.» (ivi p. 119)

Sempre ne Il serpente sono frequenti le ammissioni di menzogne da parte del protagonista, il gestore di un negozio di francobolli.

«Ho detto che gli ordini della Filatelia Criminale vengono da Parigi, da rue Druot. Invece vengono da Roma…» (ivi p. 143)

La storia si basa sul racconto del protagonista di una sua relazione con una donna, che si conclude con l’omicidio di lei e l’atto di cannibalismo di lui per far scomparire il corpo, ma… alla fine, non sappiamo nemmeno se è vero, tutto ciò, se veramente è esistita questa donna o noi abbiamo letto l’allucinazione di un pazzo. Il mondo esterno appare avvolto in una rete intricata di dati falsi, in cui la stessa verità viene distorta:

«Il fatto è che il giornalaio aveva mentito, cioè aveva detto la verità dicendo che si trattava di una menzogna.» (ivi p. 124)

Mi viene in mente un romanzo di Thomas Bernhard, Perturbamento (Adelphi, 1981), un romanzo quasi coevo a Il serpente, uscito infatti l’anno successivo, nel 1967. In quest’opera un medico porta con sé il figlio nel suo giro di visite, fino a giungere nel castello di un principe, malato anche lui, di mente. Bernhard non ci descrive la pazzia del personaggio, ma la rappresenta. Noi lettori cominciamo a seguire il lungo monologo del personaggio, perfettamente logico, ma è proprio in quella sua logica maniacale che a un certo punto emerge, senza che noi possiamo scoprirne i meccanismi alla prima lettura, la sua demenza.

Un altro esempio di romanzo in cui la realtà presentata al lettore si dimostra infida, un vero e proprio inganno, che ci lascia perfettamente spiazzati, è La macchia umana, di Philip Roth (2000, Einaudi 2001). È il racconto di una menzogna, e il lettore scopre dopo un centinaio di pagine che lui stesso è stato vittima di una menzogna del narratore. Non vi dico altro per non rovinarvi la sorpresa. Torniamo invece a Malerba, al romanzo che segue Salto mortale: Il protagonista.

Il protagonista de Il protagonista, altra voce narrante degli avvenimenti, è un cazzo. Tutto il mondo ci è presentato dal suo punto di vista, in primo luogo il suo proprietario, da lui chiamato “il capoccia”. Anche “il capoccia” ha una vita sentimentale e sessuale, e lui pure con una donna dall’identità sfuggente. Non sappiamo in che misura la visione distorta del singolare protagonista è responsabile di ciò, ma la donna, chiamata Elisabella, è coinvolta in un gioco del doppio, confondendosi con una gemella, probabilmente fittizia, Isabetta.

Ad aumentare il senso di estraneamento del lettore, la finzione del racconto è continuamente ricordata dallo stesso protagonista, che mentre racconta la storia annuncia il titolo del capitolo (3). I capitoli infatti non sono intitolati, bensì numerati… mentre nell’indice vengono elencati con il titolo enunciato nel testo. In pratica, il lettore non ha modo di dimenticare che sta leggendo un artefatto.

Ma tutto questo, dove porta?

C’è un momento, appena finito di leggere il romanzo, quando ancora ridiamo pensando alla scena appena descritta, dove “il capoccia”, sfidando le leggi dell’anatomia, cerca di spingere il protagonista verso il suo buco, c’è un momento in cui l’ilarità che ci ha accompagnati per tutto il romanzo lascia il posto a una domanda. Proprio quel gesto insensato e disperato, che dà la misura di quanto l’uomo abbia perso ogni punto di riferimento per decifrare la realtà, attira la nostra attenzione su di lui, trattato fino ad allora come una mera appendice del personaggio principlae; e allora ci chiediamo, chi è il vero protagonista dell’opera? Il cazzo o il suo proprietario?

Così come Il serpente ci aveva messo di fronte a un narratore falso e Salto mortale a una storia che poi scopriamo essere in realtà un’altra, Il protagonista mette in discussione la gerarchia dei personaggi. In pratica, vengono a meno alcuni capisaldi del genere narrativo, a partire dall’univocità del testo.

Malerba, nei suoi romanzi, non si limita a raccontare storie drammatiche o esilaranti, tesse un discorso sul senso della scrittura, e della lettura. Cosa significa scrivere? Cosa significa leggere? Una risposta forse l’autore stesso la dà in uno dei suoi ultimi romanzi, Il fuoco greco (Mondadori, 1990).

Il fuoco greco è un romanzo storico, ambientato nell’Impero bizantino negli anni a cavallo dell’anno Mille. Gli avvenimenti descrivono una lotta per la conquista del potere nella corte di Bisanzio, legato alla conoscenza della formula di un’arma segreta (il “fuoco greco”), scritta su una pergamena. In quest’opera, nel penultimo capitolo, Malerba sembra tracciare una metafora della scrittura, indicando la responsabilità che essa comporta, il suo rapporto con la realtà: essa la interpreta, trascendendola.

Riporto alcuni brani del dialogo che il fratello dell’Imperatore, Leone Foca (ex-kuropalata), intrattiene con l’eunuco Lippas (protovestiario dell’imperatore). Lippas incarna la figura ideale dello scrittore, Leone quella ideale del lettore. Leone, vedendo ogni giorno Lippas scrivere su fogli di costosa pergamena, l’apostrofa così:

« “Che cose scrivete?”
“Scrivo questa storia.”
Leone non capiva.
“Quale storia?”
“Quella che stiamo vivendo oggi, che abbiamo vissuto ieri e che vivremo domani.”
“Ma non è ancora una storia”, aveva obiettato Leone, “sono soltanto dei fatti che succedono giorno per giorno, uno dopo l’atro, spesso casualmente o per volontà di persone di cui sapete ben poco. Come si può scrivere una storia in queste condizioni?”
“I fatti che succedono sono soltanto un pretesto per la scrittura perché non sono veri […] La verità sta nella mia penna e nelle parole che io scrivo su questi fogli di pergamena.”
“Quella che scrivete è la vostra verità, appartiene solo a voi.”
“Appartiene a tutti quelli che vi stanno dentro, appartiene anche a voi perché ci siete anche voi in queste pagine.”
“Ma non mi conoscete abbastanza, non sapete che cosa penso o che cosa farò domani o fra un mese.”
“Su questi fogli voi pensate quello che vi faccio pensare io e fate quello che vi faccio fare.”
Leone Foca non desiderava essere un personaggio della storia che stava scrivendo Lippas, temeva che l’eunuco volesse condizionare la sua vita per farla coincidere con le sue pagine.” » (Il fuoco greco, Mondadori, 1990, p. 187)

È un sospetto legittimo, tant’è vero che poco dopo l’eunuco precisa:

« “Il vero Leone Foca è quello che sta scritto su questa pergamena. Voi siete soltanto il suo simulacro, la sua ombra.” » (ivi p. 188)

E poco più oltre:

« “Io sono un umile eunuco, ma quando scrivo ho più potere dell’Imperatore vostro fratello. Io posso far morire una persona con una sola parola mentre l’Imperatore deve dare ordini, pronunciare sentenze, porre firme, deve servirsi di giudici, inquisitori, eparchi, cancellieri, carnefici. Io mi servo soltanto della mia penna, di un’ampolla d’inchiostro e di un foglio di pergamena.” » (ivi p. 189)

Non è un caso che nell’intreccio degli avvenimenti raccontati nel libro sia proprio un foglio di pergamena (quello su cui è riportata la segretissima formula del “fuoco greco”), a decidere della vita o della morte dei personaggi: vive chi non lo legge, muore chi lo legge, quasi che la conoscenza di una realtà descritta faccia correre il rischio di perdere la realtà vera. Eppure Lippas incarna lo scrittore dotato di un talento sì in grado di farlo osare, però mettendolo allo stesso tempo al riparo dallo scrivere cose false.

« “Non ho studiato in nessuna scuola […] ho soltanto ingoiato un pezzo di pergamena che mi è stato offerto da un Angelo, quindi posso correre il rischio della arroganza ma non quello dell’eresia.” » (ivi, p.189)

Poi arriva quello che ha tutta l’aria di essere un testamento dell’autore Malerba:

« “Qualcuno leggerà questa storia, non importa quando. Le storie scritte, a differenza dei fatti della vita che voi chiamate realtà, sopravvivono a tutte le intemperie senza spegnersi mai […] possono venire rubate, trafugate, corrotte, riraccontate o riscritte con altre parole e in altre lingue superando il corso dei secoli, mentre i fatti della vita si consumano e scompaiono per sempre dopo che sono avvenuti. […] Una storia, dal momento che è stata scritta, esiste. Non importa quante persone la leggeranno, non importa se le sue parole verranno dimenticate, a me basta un solo lettore che ne assorba il senso e che lo trasmetta ad altri. Quel lettore posso essere io stesso che l’ho scritta. Non occorre che lavorino schiere di copisti e di traduttori, le storie scritte continuano a viaggiare per il mondo e nella mente degli uomini che si fanno loro messaggeri senza saperlo.” » (ivi pp. 188-189)

La realtà può quindi essere trasformata in verità solo tramite un artificio, che si regge su un punto di vista. Solo uno scrittore può dire la verità.

« “È la finzione che ci guida e ci sorregge” » (ivi, p. 190)

Una finzione, certo, non può cogliere ogni aspetto della vicenda trattata, ogni pensiero dei suoi protagonisti, lo scrittore Lippas lo sa, ma queste…

« “Sono contingenze che posso ignorare senza rischio […] non posso tenere conto di tutto in tutte le occasioni. Perciò scrivo una storia frammentaria ma veritiera, mentre tutte le nostre azioni sono contingenti e superflue. L’unica cosa che ci può salvare sono queste pagine alle quali, se volete potete collaborare.” » (ivi, p. 191)

A questo punto Lippas porge la penna al suo interlocutore che rimane sconcertato dal gesto e non fa nulla, allora l’eunuco riprende a scrivere senza essere più interrotto.

In questo passaggio, che chiude il capitolo, noi lettori vediamo lo scrittore offrirci la possibilità di partecipare al libro che stiamo leggendo: la finzione viene svelata ancora più efficacemente delle parole pronunciate finora da Lippas.

La forma dei romanzi di Luigi Malerba è così accidentata (nulla in essi ci spinge a rilassarci e a prendere ciò che leggiamo come un dato di fatto acquisito), proprio perché “il racconto della realtà” non può che essere recepito in maniera vigile, critica. Il lettore  è chiamato a non fidarsi del mosaico di informazioni in cui lo scrittore traduce la sua visione del mondo.

Questa impostazione rende inconcepibile, o diversamente concepibile, l’idea di un romanzo storico: come possiamo raccontare la Storia se ogni racconto porta l’autore a trascendere la realtà? Tramite una realtà parallela, analoga ma non uguale, e comunque senza la pretesa dell’uguaglianza. Ogni differenza fra la realtà narrata e quella reale si caricherà allora di significato, spingendo il lettore a interrogarsi sul senso di tale differenza.

Malerba aveva realizzato questo tipo di romanzo storico (un romanzo non-storico) pochi anni prima, con Il pianeta azzurro, Garzanti 1986. Ma ho già scritto tanto su Luigi Malerba e mi sono stancato, e poi Il pianeta azzurro meriterebbe un articolo per conto suo… leggetelo.

NOTE

(1) Paul Ginsborg, descrivendo la contestazione sessantottina, dice che il Corriere della Sera chiamava i militanti studenteschi “i cinesi”, “termine che conteneva in sé tanto la minaccia rossa quanto il pericolo giallo”. Storia d’Italia 1943-1996, Paul Ginsborg, Einaudi, 1998, p. 368
(2) Bompiani, 1973, p. 42. Altrove troviamo la mancanza di preposizioni (“stava in casa tutto il giorno aspettare al terzo piano” p. 40), o neologismi frutto di una deduzione logica arbitraria, come è il caso della “cartellonica stradale” p. 45 (segnali/segnaletica, cartelli/…cartellonica)
(3)Il protagonista, op. cit., p. 9, dove si legge: “…il titolo di questo capitolo sarebbe infatti LA TANA”

Una risposta a “LUIGI MALERBA E IL SALTO MORTALE DELLA LETTERATURA”

  1. “Mi piace pensare che le opere non ci appartengano, e che noi siamo solo le antenne che le captano nell’aria vestendole con la nostra sensibilità” mi ricorda Michelangelo. Malerba insomma è tutto da conoscere.

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