Mi ricordo Joe Brainard

Non userei mai l’aggettivo “magico” associato a un libro. Per me la letteratura è una forma d’arte, e come tutte scaturisce da una scintilla dell’inconscio che mette in moto un meccanismo più o meno razionale. Per non essere fumoso: c’è un’intuizione, e il lavoro sulla forma che la modella. Solo con un romanzo mi è capitato di capire cosa volesse dire mesi dopo averlo scritto. Mentre lo scrivevo ero guidato da una sensazione, un’immagine: se non mi scostavo da essa allora ero certo di seguire la strada giusta. Poi, mesi dopo averlo finito, ho capito cosa volevo dire con quell’opera. Oppure: ho capito cosa quell’opera voleva dire a me. Non è il mio modo di scrivere, ripeto, anche se ogni tanto mi succede. In ogni caso l’arte non piove mai dal cielo, cresce dentro di noi, magari vicino al fegato, e poi sale al cervello, che dopo essersela girata fra le mani un paio di volte la butta fuori. Insomma, l’arte, per quanto a prima vista vista certe volte possa sembrare irrazionale, è un’elaborazione; e una sintesi. Per questo non userei mai l’aggettivo “magico” per definire un libro; solo una persona sprovveduta potrebbe farlo, o un bambino. Mi ricordo, di Joe Brainard, è un libro magico.

Scritto in diverse edizioni fra il 1970 e il 1974, I remember (Mi ricordo, traduzione di Thais Siciliano con la collaborazione di Susanna Basso, edizioni Landau, 2014), è l’opera narrativa principale di Joe Brainard, che fu soprattutto un pittore. In questo romanzo (perché di un romanzo si tratta, nonostante chi predica una forma canonica per questo genere narrativo potrebbe storcere il naso), Joe Brainard ricorda brandelli della sua vita attraverso i ricordi che gli salgono alla mente. Ci troviamo di fronte a una serie di frasi, spesso brevi, di una sola riga, a volte di cinque-sei righe (che comprendono due o tre periodi), raramente tanto numerose da formare un paragrafo intero.

Sono ricordi discontinui e disparati, partono dall’infanzia ma poi abbandonano la via della cronologia, o altri fili conduttori. A volte sono episodi, altre semplici oggetti. Tutti però hanno lo stesso incipit: “Mi ricordo”. Il romanzo diventa allora un elenco di ricordi, una raccolta di frammenti dell’esistenza. Forse è proprio questa mancanza di ordine a dare al libro una forza travolgente che non riesco a spiegarmi. Nel libro di Brainard io ci leggo la volontà di un essere umano di dire, a se stesso e agli altri, che lui ha vissuto, perché si ricorda molte cose della sua vita, e dirle è un modo sia di salvarle dall’oblio della nostra memoria, sia di scavare dentro di essa per trovarsi.

Evidentemente, per quanto piccoli o apparentemente insignificanti certi frammenti possano sembrare, per il solo fatto di essere stati trascritti ci dicono che ricoprono un’importanza particolare per l’autore. Ad esempio questo, che è il primo ricordo che leggiamo:

Mi ricordo la prima volta che mi arrivò una lettera con su scritto “Dopo cinque giorni restituire al mittente”, e io pensai che dopo cinque giorni avrei dovuto restituirla davvero.” (p. 21)

O poco più oltre nella stessa pagina, quest’altro:

Mi ricordo la mia prima sigaretta. Una Kent. Su una collina. A Tulsa, in Oklahoma. Con Ron Padget.”

Questa frase potrebbe essere scritta in un unico periodo, sostituendo ai punti le virgole, ma leggendola così come Brainard ce l’ha consegnata percepiamo il processo che l’ha creata: un frammento alla volta. Prima il fatto (la prima sigaretta), poi l’informazione sulla marca, quindi il luogo fisico e poi geografico, e infine l’amico che gli faceva compagnia. Come un mosaico che si ricompone.

Non mi ricordo quando leggendo questo libro per la prima volta ho provato la vertigine di trovarmi di fronte a una cosa grande, che mi riguardava. Perché inevitabilmente, attraverso l’empatia naturale dei lettori, noi ci identifichiamo in chi scrive, e poi (solo poi), ci interroghiamo sui nostri ricordi: “Se io dovessi scriverne uno, qual è il primo che mi verrebbe in mente?”. Se ci penso, io lo so. Ma ciò che mi preme dire qui, a proposito del romanzo di Brainard, è che in effetti la magia non c’entra: la seduzione e l’incanto dei frammenti di vita che mi vengono raccontati scaturiscono dalla testimonianza di qualcuno che ci racconta di aver vissuto la sua vita. Tuttavia non ricordo più a quale pagina la seduzione è scattata. Che cosa buffa, non ricordare una cosa così di un libro che si chiama “mi ricordo”. Comunque sia, a un certo punto che io non riesco più a ricordare, la lettura di questa serie di ricordi mi ha fatto capire di trovarmi di fronte a qualcosa di grande che riguardava anche me.

Però, in fondo, io so cosa è stato a sedurmi: non tanto la combinazione di alcuni passaggi, quanto l’effetto dell’accumulazione che a un certo punto si è imposto alla mia attenzione. Non il discorso, ma la forma. Perché ascoltare una persona che ricorda un fatto dopo l’altro della sua vita, senza che esista un filo conduttore, mi fa pensare a qualcuno sul letto di morte, o in uno dei rari momenti in cui ci troviamo nella condizione di fare un bilancio della nostra esistenza, in uno dei rarissimi momenti in cui ci si rende veramente conto che la vita è fatta di tempo, e che il tempo prima o poi finisce, e questo qualcuno lo sa. Elencare i suoi ricordi in fondo significa questo: fare i conti con la temporalità della propria coscienza. E allora la magia, ancora una volta, non c’entra più nulla: ciò che incanta, del libro di Brainard, è la consapevolezza del tempo finito che costituisce la nostra vita. Ed è questo che mi riguarda, perché anche la mia vita un giorno finirà, e se dovessi saperlo in anticipo (il medico che mi diagnostica una malattia incurabile), mi ricorderei molte cose che sono stato. Molti oggetti che mi hanno parlato, o che hanno riassunto un’epoca, quella in cui ho vissuto. Le persone che mi hanno amato. Perché la consapevolezza di stare qui al mondo per un tempo preciso innesca la memoria. Brainard non ha avuto bisogno di trovarsi a un passo dalla morte: ci ha pensato prima.

Forse, come dice Paul Auster nella prefazione alla versione italiana di quest’opera, Joe Brainard ha scoperto una macchina della memoria. È proprio così. Se ci provate, a sedervi e scrivere “mi ricordo”, vedrete che vi verrà in mente una cosa. Potete anche fare a meno di sedervi e di scrivere, potete camminare e pensare. Ma in ogni caso la formula “mi ricordo” ha il potere di innescare la memoria. Provateci: non saranno mai ricordi insignificanti. Vi avranno già preceduto George Perec (Mi ricordo, Bollati Boringhieri), e Marcello Mastroianni (Mi ricordo, sì io mi ricordo, Cineteca di Bologna), e Annie Ernaux (Gli anni, L’orma editore) e forse altri che io non conosco, ma sicuramente tutti possono offrirvi un incanto simile a quello evocato per la prima volta da Brainard. Nel caso della Erneaux, a dire il vero, il discorso è più complesso e meriterebbe di essere trattato a parte.

Vi lascio con un ultima piccola serie di “mi ricordo” di Brainard, presi da una pagina rigorosamente aperta a caso, la numero 95:

Mi ricordo le smagliature nelle calze.

Mi ricordo di essermi guardato allo specchio e di aver visto un perfetto estraneo.

Mi ricordo che avevo una cotta per un ragazzo del mio corso di spagnolo che aveva le mie stesse scarpe scamosciate verde oliva con fibbia di ottone. (“Flagg Brothers”). Non gli dissi una parola in tutto l’anno.

Mi ricordo i maglioni sulle spalle e gli occhiali da sole tirati su sopra la testa.”

Qui il sito web dedicato a Joe Brainard