Nel capitolo precedente ho accennato a una narrativa basata sulla verosimiglianza degli eventi e sul meccanismo di immedesimazione del lettore in ciò che legge. Questo modello letterario, mentre offre una lettura della realtà, si regge sul tacito patto fra scrittore e lettore che ciò che è scritto sia indiscutibile. Certo in quanto finzione non è la realtà, ma se si vuole che alla fine del libro al lettore sia chiaro il messaggio dell’autore, ciò che viene raccontato non deve essere messo in discussione. Esistono però anche altri modelli letterari, e uno di questi si fonda su un patto diverso, e cioè che il libro, la parola scritta, non sia affidabile. È il caso di Paul Auster, un autore dove in certe opere il racconto si contraddice e noi scopriamo di aver letto una mistificazione della realtà (succede ad esempio in Invisibile, Einaudi 2009). Fin dalle prime opere Paul Auster ha sempre presentato la scrittura come un’arte dello smarrimento. Qui voglio parlarvi della Trilogia di New York (Einaudi 1987)
Paul Auster fra il 1985 e il 1987 ha scritto tre romanzi, successivamente raccolti ne La trilogia di New York: Città di vetro, Fantasmi, La stanza chiusa. Di fatto, io leggo questo libro come un unico romanzo, se non addirittura un’unica storia, certamente come un’unica idea di storia, quella che la letteratura non spiega nulla, ma fa smarrire chi scrive, e conduce chi lo legge dentro un labirinto.
La suggestione di un universo incerto e privo di indicazioni noi lettori lo percepiamo da subito, dall’incipit del primo romanzo, davanti a un protagonista dall’identità sfuggente: si chiama Daniel Quinn, è uno scrittore che ha abbandonato l’idea di riuscire a trovare un editore per le sue opere, e campa scrivendo romanzi polizieschi con lo pseudonimo di William Wilson, questi invece sì, vendono (a proposito, anche Auster per sbarcare il lunario ha scritto un romanzo poliziesco sotto pseudonimo.) Il protagonista dei romanzi è un detective privato che si chiama Max Work.
Dunque, abbiamo preso in mano un libro, cioè il prodotto di un autore, e il primo personaggio è anch’esso uno scrittore. C’è un’aria di metafora, di “discorso sul romanzo”, anche perché il nome di William Wilson ricorda il personaggio di un altro autore americano, Edgar Allan Poe, che infatti troveremo citato più volte nel corso del libro, e lungo l’intera l’opera di Paul Auster. Sembra che Auster ci voglia dire qualcosa, è un pensiero che subito si fa più forte non appena riprendiamo a leggere, perché suona il telefono e Quinn risponde: qualcuno cerca un investigatore privato di nome Paul Auster…
Ricapitolando, stiamo leggendo un’opera dove c’è un personaggio che si chiama Paul Auster, come l’autore: Paul Auster personaggio, Paul Auster autore, e volete sapere cosa succede? Quinn decide di accettare il caso che il tizio al telefono gli propone, spacciandosi per Paul Auster: il personaggio si sostituisce all’autore. Ma il gioco del doppio non è ancora finito: Quinn seguirà il caso recitando la parte del detective, si immedesimerà nel personaggio di William Wilson, Max Work (to work as Work). In realtà poche pagine dopo incontreremo addirittura Paul Auster, non il detective, ma un omonimo, uno scrittore, come Quinn, che ha un figlio di nome Daniel, come Quinn, e una moglie che a Quinn ricorda la sua, morta tempo prima con il figlio (e “Auster autore” ci lascia capire che anche il figlio di “Auster personaggio” ricorda a Quinn suo figlio). Il gioco del doppio, dicevo: Quinn è invidioso di Auster, lo vede come lo specchio che gli rimanda l’immagine che lui ha perso.
Non continuo a citare gli innumerevoli casi in cui un personaggio si lega a un altro, perché quello che voglio fare non è un’analisi della Trilogia di New York, ma concentrarmi su quello che io leggo dietro la trama.
Una cosa che accomuna i protagonisti dei tre romanzi è che scrivono: Quinn e il protagonista senza nome de La stanza chiusa sono scrittori; Blue, l’eroe di Fantasmi, un detective privato (vero, non come il Quinn di Città di vetro che si spaccia per Paul Auster, ma altrettanto vero del Quinn citato ne La stanza chiusa… che poi è la stessa persona, forse). Blue scrive i rapporti degli appostamenti per spiare Mr. Black indirizzandoli al suo cliente, Mr. White, che è lo stesso Black sotto mentite spoglie (a proposito: White è uno scrittore). Quando il caso sembra sfuggirgli di mano, non riuscendo più a capire quale sia il senso di ciò che fa, Blue comincia a registrare tutto ciò che vede, smettendo di praticare la scrittura schematica dei rapporti investigativi, e inizia a perdersi.
Ecco un nuovo elemento: tutti i personaggi di questi romanzi, non solo i protagonisti, scrivendo perdono la loro identità: il personaggio principale de La stanza chiusa, sulle tracce dell’amico scrittore Fanshawe, arriva al punto di smarrire se stesso, non sa più cosa fa, dov’è… È un destino che troviamo anche nei primi due romanzi della Trilogia: Quinn diventa un barbone, Blue si isola dal mondo reale e arriva al punto di trasformarsi quasi in un omicida (come l’amico di Fanshawe, del resto); White raggiunge un grado di alienazione tale da assumere un detective per farsi spiare e sentirsi vivo. D’altronde, il personaggio pedinato da Quinn, Stillman, attraverso la sua ossessione per la ricerca delle parole di Dio ha perso il figlio, ricerca che si conclude con il suicidio; e lo scrittore Fanshawe lascia la moglie e il figlio, scomparendo per vivere in solitudine e miseria.
Tornando per un momento ancora alle somiglianze fra i personaggi, notiamo che l’amico senza nome di Fanshawe diventa suo malgrado un detective, come Quinn (e come Black). Come Quinn si perde a fissare il cielo. A un certo punto, pensando a sé come scrittore, dice: “Ero un investigatore, dopo tutto, e andare a caccia di indizi il mio lavoro.”
Scrivere significa raggiungere una verità, o almeno cercarla, credevamo, credo io. Scopriamo che Auster non la pensa così, o almeno non i suoi personaggi, non questi.
Alienazione, omicidio, suicidio, violenza: è la condizione dello scrittore presentata nella Trilogia. Certo, il personaggio Paul Auster, lo scrittore che abbiamo citato prima, l’omonimo del Paul Auster detective privato, sembra dirci che non è così: lui ha una moglie e un figlio, ci viene presentato in un momento di felicità, ma Paul Auster autore traccia un parallelismo fra lui e Quinn: egli incarna ciò che Quinn è già stato… Non è arbitrario pensare che ciò che attende questo Paul Auster sia il medesimo destino degli altri scrittori (per corollario: Fanshawe, quando smette di scrivere, ritrova un punto di equilibrio.)
L’alienazione entra in sordina, senza cesure drammatiche con la vita di tutti i giorni, e poi, ad un certo punto, i protagonisti si accorgono che le cose sono cambiate, irrimediabilmente. Vorrebbero fare qualcosa, ad esempio parlare con una donna a cui prima di perdersi erano legati, ma non ci riescono…
Chi scrive sembra smarrirsi, dicevo all’inizio di questa riflessione sulla Trilogia di New York, come se scrivere allontanasse dalla vita, o quanto meno dall’alveo sociale. Ma perché?
C’è un momento, in Città di vetro, in cui Paul Auster (il personaggio) chiacchiera amabilmente con Quinn di letteratura, esponendogli una sua teoria sul Don Chisciotte: Cervantes era veramente il Cavaliere dalla triste figura, e aveva recitato la parte di Don Chisciotte perché amava lui stesso i poemi cavallereschi, ma non aveva scritto il libro, facendo invece in modo che fossero i suoi amici, il barbiere e il prete, a farlo per lui, attraverso i resoconti di un testimone oculare delle sue gesta. Sancho Panza, è il testimone, il personaggio vero dell’invenzione di Cervantes, colui che gli permette di creare per interposta persona la sua opera. Senza di lui essa non sarebbe mai esistita.
Eccoci arrivati al punto. Nell’ultimo romanzo della Trilogia, il protagonista si trova a gestire l’eredità letteraria di un suo amico, Fanshawe, scrittore molto più dotato di lui, scomparso improvvisamente, forse morto. Dopo avere iniziato la cura dell’opera omnia si lascia convincere a scriverne la biografia, e finisce per ripercorrere i suoi passi, cercando di ritrovarlo, o di ricostruirne la personalità fino in fondo. Durante questa ricerca ci viene suggerito che il protagonista, fin da ragazzo, nei confronti di Fanshawe si era sentito come Sancho Panza con Don Chisciotte: il testimone, colui che permette all’autore di realizzare la sua opera. Ma tutto questo, dove porta?
Prima parlavo dello smarrimento in cui sembra, per Paul Auster, far precipitare la scrittura, ma non credo che ciò sia il messaggio del libro; penso invece che tale smarrimento sia l’effetto di un’altra causa, questa sì, l’idea che regge il romanzo: il processo di estraneamento dell’autore ignorato.
Quando l’amico di Fanshawe segue le sue orme in Francia (anche Auster autore ha vissuto momenti importanti in quel Paese), scopre che lì egli aveva cominciato a presentarsi espressamente come uno scrittore, cosa che non aveva mai fatto in patria, con i suoi amici, parenti e conoscenti. È un’emancipazione identitaria dovuta al raggiungimento della sua piena maturità espressiva, certo, ma non è un caso che avvenga lontano da chi lo conosceva. Scrivere può essere qualcosa da nascondere, qualcosa di cui si vergogna, perché significa compiere una scelta che potrebbe essere derisa.
La solitudine dell’autore ignorato non è una cosa da poco, per lui venire ammesso nel mondo editoriale significa trovare il proprio spazio nel mondo, essere considerati per quello che si è. Certo, scrivere è un’esigenza imprescindibile, uno scrittore non attende di pubblicare per comporre le sue opere, ma di fatto l’uomo è un animale sociale: vive di relazioni. Siamo ciò che gli altri vedono in noi; se non ci vedono, diventiamo disadattati. E quando uno scrittore non viene visto per quello che lui desidera, prova l’angoscia che vivono i personaggi di Auster, che diventano appunto barboni, alienati, potenziali assassini, suicidi.
Io credo che il cuore della Trilogia stia qui: Auster ha materializzato l’angoscia per il rifiuto delle sue opere, la possibilità concreta di perdere la propria identità sociale. Ecco perché i personaggi, quelli che gli permettono come Sancho Panza a Don Chisciotte di rappresentare la sua opera, sono scrittori, doppi dell’autore.
Io, questo libro lo leggo come un esorcismo.