THE BOOTH AT THE END: LA NARRAZIONE AL CENTRO DELLA NARRAZIONE

Vedo l’uomo sempre seduto al tavolo in fondo del drive-in. A volte è solo, altre parla con qualcuno, mai con più di una persona alla volta, eccetto quando la cameriera si avvicina al tavolo per prendere l’ordinazione o servirla, o quando rimbocca la tazza del caffè. È sempre lui a consumare qualcosa, gli altri appena entrano si dirigono al suo tavolo, si siedono e gli parlano. Spesso lui tira fuori un’agenda voluminosa, la sfoglia, legge o scrive qualcosa. Vedo l’uomo seduto al tavolo in fondo sia di giorno che di sera, non so se il drive-in è di quelli che stanno aperti tutta la notte, ma stando alle gradazioni di luce che filtrano dalla finestra ho l’impressione che incontri i suoi interlocutori sia di mattina che di pomeriggio, sia di sera che di notte. L’uomo appare spesso molto stanco. Sarà per il mestiere che fa. Ma che mestiere fa? E che ci fa, se non è un mestiere, sempre seduto al tavolo in fondo del drive-in, a parlare con quella gente?

The booth at the end è una serie tv dove al centro della narrazione c'è la narrazione stessa
Il tavolo in fondo, the booth at the end

Pure guardando la serie televisiva, The booth at the end, letteralmente “Il tavolo in fondo”, non lo sapreste, potreste solo immaginarlo. Chi lo cerca si reca subito da lui, anche se non l’ha mai visto, segno che chi ce l’ha mandato gli ha dato l’indicazione del drive-in e dell’uomo, seduto sempre al tavolo in fondo, “the booth at the end”.

The booth at the end è una delle serie televisive più belle che ho visto recentemente e si regge sul fascino di ascoltare storie. Al momento ho potuto vedere solo la prima serie (mentre scrivo ne esiste una seconda). Non è un caso se dico “ascoltare” storie e non “vedere”. Nel film infatti noi non vediamo nulla se non un personaggio seduto al tavolo in fondo di un drive-in che parla con altri personaggi. Assistiamo a conversazioni. I personaggi vengono introdotti da una schermata nera con il loro nome, come i capitoli di un libro, e come in un libro raccontano una cosa.

Ognuno ha un desiderio da realizzare: salvare il figlio di tre anni dal cancro, conquistare la ragazza che appare sulla pubblicità di una rivista, trovare la fede smarrita, salvare il coniuge dall’Alzheimer… L’uomo seduto al tavolo in fondo allora prende la sua agenda, la sfoglia, e vi legge un incarico per ognuno di loro: se lo porteranno a termine, avranno ciò che chiedono. I compiti da eseguire sono cose tipo uccidere un bambino, proteggere un bambino, fare una strage, rimanere incinta… e sono subordinati al vincolo di raccontare nei particolari quello che si sta facendo: come ci si sta muovendo per portarli a termine, cosa si prova, sensazioni, rimorsi, speranze. Quando succede l’uomo apre la sua agenda e prende appunti. Chiede di spiegare meglio qualcosa, un particolare, un’emozione. E scrive.

Noi non vediamo mai le cose che vengono raccontate, rimaniamo a guardare questi personaggi che raccontano ciò che hanno fatto, ciò che intendono fare, ciò che provano. Ma è come se vivessimo la storia che raccontano. La narrazione (la fiction) coincide con l’atto stesso di narrare: al centro della narrazione c’è l’atto della narrazione.

Il fascino di questa serie televisiva, dagli episodi brevi (23 minuti), risiede nel saper mantenere desto il senso di mistero sull’uomo. Alla fine non mi preme più sapere chi sia quell’uomo, ciò che voglio è vedere come i personaggi cercano di portare a termine il compito affidatogli. Non è nemmeno importante che lo portino a termine o che falliscano, ciò che tiene i miei sensi vigili è ascoltare la storia che stanno vivendo.

La grandezza che scorgo in The booth at the end è di focalizzare l’attenzione sul racconto, come succede a un bambino di tre anni quando ascolta il genitore leggergli la storia dal librone delle favole. Il bambino che ero io, la bambina che è stata mia figlia. Il “librone delle favole” in questione è una raccolta di fiabe di tutto il mondo curata da Gianni Rodari. È un libro enorme, dalle bellissime illustrazioni, rigorosamente letto in casa mia sempre aprendolo a caso, nella speranza di trovarci una storia ancora nuova. Non è l’unico libro che leggevo a mia figlia da piccola, né il primo, è però quello che meglio incarna la nostra fame di lettura e ascolto.

C’è però una differenza fondamentale fra le favole, o un romanzo, e i racconti dei personaggi di questa serie televisiva. Una differenza che riguarda lo stile narrativo. Nelle favole gli avvenimenti ci vengono comunicati con uno stile unico (concitato, piano, surreale, lento, veloce…), che ci accompagna dall’inizio alla fine. La storia può risultare triste o lieta, ma lo stile è lo stesso. Nella serie televisiva in questione, invece, il mutevole stato d’animo con cui il personaggio racconta gli sviluppi del suo caso ci fa subito capire se la piega che ha preso è stata felice o meno. Ogni storia è così raccontata con stili diversi, il che ci porta a viverla come se davvero la stessimo vedendo, come se guardassimo un film con i suoi colpi di scena, l’alternanza delle emozioni. Eppure non vediamo nulla se non qualcuno che racconta qualcosa a qualcuno.

L’ambientazione scarna degli episodi, la location, potrebbe essere resa senza il minimo sforzo su un palco di teatro, tanto è grande il potere del racconto, letteralmente il potere della parola.

È questo potere che mi affascina.

L’incanto della parola sta alla base di ogni libro che amiamo. Per quel che mi riguarda non è importante che sia legato a una storia dettagliata e verosimile. Nella sezione dei libri di questo blog sto raccontando un tipo di letteratura diversa, mancina, che tradisce l’impegno di essere un esempio di vita vissuta e che mette al centro del suo messaggio l’attenzione sulla scrittura, sul suo potere di distorcere la realtà, o di saperla rendere in maniera altrimenti impossibile. Se scrivere è mostrare senza spiegare, come si raccontano ad esempio i tempi morti della vita? O il tema del doppio quando questo è vissuto solo da un unico personaggio?

Scriveva Moebius:

Non c’è alcuna ragione perché una storia sia come una casa con una porta per entrare, delle finestre per guardare gli alberi e un camino per il fumo. Si può benissimo immaginare una storia a forma d’elefante, di campo di grano o di fiammella di cerino. (Métal Hurlant n. 1, 1975)

The booth at the end, pur raccontando storie verosimili e emblematiche, storie come case con la porta per bocca e finestre per occhi, possiede la forza della parola incantatrice. Io questo incanto lo preferisco nelle storie a fiammella di cerino, ma è bellissimo ritrovarlo ovunque, e The booth at the end ce l’ha.

2 Risposte a “THE BOOTH AT THE END: LA NARRAZIONE AL CENTRO DELLA NARRAZIONE”

  1. Hai creato una grande curiosità, non l’ho mai visto, ora devo cercarlo 🙂

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