Uno, due, tre: Michael Kimball


“La culla di mio fratello e le altre cose da bambini piccoli ci hanno portato da Mineola a Birthrock.” (UNO)

Cosa sta succedendo? Quando ho aperto il romanzo per la prima volta mi sono sentito spiazzato: oggetti che portano qualcuno da qualche parte… Leggendo è difficile fermarsi a riflettere, staccare gli occhi dal testo, soprattutto se la frase che per un motivo ancora non chiaro ci ha colpito è subito seguita da un’altra di questo tenore:

“Le collane di mia madre e le altre cose per farsi elegante ci hanno portato da Birthrock a Stringtown.” (DUE)

Sembra un elenco, anche se ora, forse… ma di nuovo, più in fretta dei miei pensieri, gli occhi continuano a leggere:

“Lì, quella ragazza si è presa gli abitanti della casa di mia sorella assieme a tutte le altre cose con cui lei giocava alla famiglia.” (TRE)

In cambio, ecco il concetto che mi era balenato in testa mentre leggevo la seconda frase, non gioielli che compiono uno spostamento, ma che lo rendono possibile, gioielli in cambio di un viaggio, della possibilità di spostarsi da una città a un’altra. Dopo la madre, che ha perso le collane e le altre cose per farsi elegante, e dopo la culla del fratellino, è la volta della sorella di sacrificarsi. L’autore ce lo fa capire contando, espone una successione di fatti senza preamboli, com’è proprio di un personaggio che comincia a raccontare qualcosa di tanto radicato in lui da non poter essere differita con altre spiegazioni.

L’autore in questione è Michael Kimball, il romanzo The Way the Family Got Away, in Italia pubblicato da Adelphi (2001) con il titolo E allora siamo andati via, traduzione di Paolo Dilonardo.
Prima di dire quello che voglio dire su questo romanzo, vorrei finire di leggere il primo capoverso, riprendendo da dove eravamo rimasti, alla quarta frase, in cui Kimball torna a contare da uno a tre, perché così come in tre movimenti ci aveva trascinato di peso nel cuore di una narrazione necessaria, ora definisce il quadro di ciò che accade.

“Le hanno detto che non avrebbe più avuto bisogno della casa delle bambole e dei suoi abitanti perché non vivevamo più in casa nostra.”

Cominciamo a intuire perché questi oggetti che appartengono a una famiglia (il fratello piccolo, la madre, la sorella) vengono barattati: è suggerita una condizione di bisogno, magari legata alla perdita della casa.

“Così la casa delle bambole di mia sorella e tutto quello che c’era dentro ci hanno portato da Stringtown ad Albion.”

Il baratto ora è chiaro, l’effetto spiazzante che ci aveva colto all’incipit del racconto si sta dissolvendo, per essere del tutto annullato dall’ultima frase del periodo:

“Lì è stato dove quell’altro tizio si è preso l’orologio da tasca di mio padre e il suo coltellino da viaggio, più certe cose che portava sempre con sé ogni volta che andavamo da qualche parte.” (1)

A questo punto l’autore ha preso tutta la mia attenzione, sono disposto ad ascoltare la storia, che è la storia di un viaggio, quello di una famiglia, madre, padre, fratello e sorella minore, più il cadavere del fratellino. Proprio così, il cadavere del fratellino, rinchiuso nella piccola bara, e la bara dentro il  portabagagli dell’auto che porta la famiglia verso la casa del “babbo-vecchio”, a Gaylord, in Michigan, dopo aver lasciato la casa in cui i bambini avevano vissuto fino ad allora, a Mineola, in Texas.

Perché la famiglia se ne va? Non lo sappiamo, l’autore non lo dice, di sicuro la decisione viene presa dopo la morte del figlio più piccolo, probabilmente di pochi mesi (anche l’età dei personaggi non viene mai detta). Questo lutto però non è sufficiente a spiegare il viaggio, la decisione di raggiungere il “babbo-vecchio” – com’è chiamato dai bambini quello che probabilmente è un nonno – non spiega la disperazione che caratterizza il viaggio, dove, tappa dopo tappa, ogni componente della famiglia perde qualcosa di sé, giocattoli, vestiti, gioielli, cose che lo legano alla vita che ha appena lasciato, come se la strada gli facesse perdere peso, rendendolo tanto leggero da staccarsi dalla vita passata, e dalle certezze che la costituivano, prima fra tutte l’idea di appartenere a una famiglia.

La paura del disfacimento della famiglia è radicata nei due protagonisti del romanzo, i bambini, fratello e sorella: sono loro a raccontare la storia. Kimball li fa parlare a turno, con una voce che si sforza di non essere quella del narratore adulto, impiegando un vocabolario ridotto, a misura di bambino, e soprattutto uno sguardo adeguato ai piccoli protagonisti, leggendo le cose del mondo con i loro occhi, comunicando la loro interpretazione della realtà. Ecco ad esempio una delle spiegazioni che il bambino ci dà della morte del fratello più piccolo:

“Quello che ha ucciso il mio fratellino è che nella culla non erano più rimasti anni di bambino. […] Li avevamo consumati tutti io e mia sorella e nell’altra roba da bambini non erano rimasti abbastanza anni da bambino per far continuare a vivere il mio fratellino.” (E allora siamo andati via, p. 38)

O ancora, l’intuizione trasmessa dalla sorella più piccola che crescere non significhi trasformarsi, ma trasmigrare da un corpo all’altro:

“Ma che cosa succedeva se il mio nuovo fratellino […] diventava troppo grosso per vivere nella pancia di mamma e doveva uscire dal buco di mamma e vivere troppo presto fuori di lei? E dov’erano andati a finire i bebè che eravamo stati io e mio fratello grande dopo che eravamo diventati più grandi e più grossi e più lontani da quei bebè là?” (ivi p. 81)

Un altro pensiero della bambina è che abbandonare le cose le faccia morire, come se le cose avessero un’anima e cederle ad estranei significhi uccidere la famiglia. Il pensiero della famiglia, dicevamo, è sempre presente nei due bambini (stupisce che Adelphi abbia tolto la parola “famiglia” dal titolo).
La sensazione che il nucleo familiare sia divenuto vulnerabile, sul punto di sgretolarsi, è esorcizzata dai due fratelli nei loro giochi e in pensieri quasi ossessivi:

“Loro presero la culla del mio fratellino e l’altra roba da piccoli […] L’unica cosa da piccoli che tenemmo fu il nostro fratellino. E così restammo una famiglia.” (ivi p. 38)

Così il bambino, e più tardi ancora ci dirà:

“Mio fratello e andarcene via erano le sole cose rimaste alla famiglia che nessun altro poteva portarci via e che mia madre e mio padre non potevano toglierci e vendere” (ivi p. 123).

Il libro si svela poco alla volta. Prima di tutto capiamo che è la storia di un viaggio raccontato da due bambini. Se questi sono i primi due elementi che possiamo cogliere, subito dopo ci accorgiamo del carattere disperato del viaggio. È il frutto di un’urgenza, di una necessità, che però non viene spiegata. La disperazione è il terzo elemento. Il viaggio, dicevo, non viene contestualizzato: ci viene riferito l’itinerario, ma quando si svolge? Alcune tracce potrebbero far credere che si tratti, quello della famiglia, di un destino condiviso da molti. Ecco ad esempio come il bambino descrive una sosta lungo la strada:

“C’era gente che dormiva nelle macchine, sul sedile davanti o quello di dietro, appoggiata allo schienale o sdraiata. C’era gente che dormiva nei camion, nella cabina del guidatore o fuori sul tetto del camion. C’era gente che dormiva in tende fatte con le coperte e altra che dormiva in tende che erano veramente tende. C’era anche più gente che dormiva nei sacchi a pelo sotto i tavoli da pic-nic e tra l’erba alta e sul marciapiede.” (ivi p. 64)

O ancora:

“Passavamo davanti a posti vuoti – fossi sul bordo della strada, case senza finestre né porte, stalle senza tetto, campi senza alberi né nient’altro che ci cresceva dentro.” (ivi p. 69)

Queste descrizioni a me richiamano la Depressione dei primi anni ’30, o meglio le migrazioni descritte da Steinbeck in Furore, ma Kimball non cita date, e la cosa non può essere casuale, come la mancata spiegazione del viaggio. Ci racconta un fatto, ma non lo spiega e non lo colloca in un momento preciso: questo è il quarto elemento del libro che percepiamo. Significa che l’autore è consapevole della valenza metaforica, e quindi universale, della vicenda narrata. Ecco cosa mi viene in mente leggendo questo libro, diciamo da metà in poi, che si tratta di un romanzo dai confini temporali e geografici sfumati, un romanzo che anela a valicare i confini di spazio e tempo (la Storia).

Da questo momento la storia non è più il viaggio: il nucleo del racconto è lo sguardo di chi ce lo racconta. Sono i pensieri, le emozioni dei bambini, a costituire il senso del libro, i pensieri e le emozioni degli altri personaggi, in primo luogo i genitori, che i bambini descrivono, facendocele intuire. Ed è il ritmo del racconto, fatto di frasi brevi, che spezzano il discorso in una serie di immagini in successione, che dà spessore alla testimonianza dei due fratelli.

Nel ritmo che Kimball imprime al loro racconto cogliamo un’intenzione. Un’intonazione. Ciò che voglio dire di questo libro riguarda soprattutto il suo ritmo. Il personaggio che inizia a parlarci esordisce dicendo una cosa che non possiamo capire: la culla di mio fratello ci ha portati da una città a un’altra.
Parla di qualcuno che era con lui (ci ha portati), senza dire chi. Ora, nella vita vera, quella che viviamo fuori dai libri, non ascolteremmo mai un racconto in queste condizioni. Solo un pazzo può piombarci davanti con la sua storia, ma noi lo troveremmo molto più fastidioso che poetico e dopo averlo scartarto di lato tireremmo dritti per la nostra strada. Con i libri non funziona così: siamo predisposti alle sorprese, anzi, non chiediamo di meglio.
Ci sono romanzi che cominciano lentamente, descrivendo personaggi, luoghi e magari antefatti (mi viene in mente La peste di Camus), altri invece ci trascinano subito nel vortice della fabula (La modificazione, di Butor, e per somiglianza Se una notte d’inverno un viaggiatore, di Calvino). Il primo romanzo di Kimball appartiene a questi ultimi.

La caratteristica principale di questo genere di narrazioni, che non introducono in alcun modo il lettore alla storia, in parte è quella di comunicare l’urgenza che detta il racconto, in parte di annullare la distanza fra il personaggio e le sue parole: non abbiamo tempo, noi lettori, di fermarci a riflettere su chi dice cosa, lo ascoltiamo e basta. È uno strumento retorico, un mezzo per ottenere un effetto: Kimball se ne serve per dare voce a un bambino. Un bambino, una bambina, se devono dire qualcosa di sconvolgente, non la spiegano, non partono “dall’inizio”, iniziano dal cuore. E non costruiscono un discorso con frasi lunghe, bensì sciorinano tanti piccoli ricordi.

Kimball ha raccontato una storia senza tempo e plausibile in ogni luogo, costituita dalle impressioni di due bambini alle prese con viaggio che potrebbe portare alla perdita della loro famiglia; le loro paure, le loro speranze, le schegge di mondo viste attraverso i lori occhi. Ed è Il ritmo della sua narrazione a rendere il racconto verosimile, perché si intona alla voce dei bambini. (2)

Si sa: l’arte, coniuga forma e contenuto. Se l’intenzione dell’autore era di farci sentire la voce dei due protagonisti, ha scelto l’intonazione giusta.

Michael Kimball ha scritto altri romanzi: How Much of Us There Was (2005), Dear Everybody (2008), Big Ray (2012), non ancora tradotti in italiano. Peccato.

Il blog di Michael Kimball.

NOTE

(1) “My brother’s cradle and other baby stuff got us from Mineola to Birthrock. My mother’s necklaces and other dress-up stuff got us from Birthrock to Stringtown. This girl there got my sister’s doll people along with all the other things that went with her practice family. They told my sister she wasn’t going to need her dollhouse and the doll people living in it anymore since we weren’t living in our house anymore. So my sister’s dollhouse and everything in it got us from Stringtown to Albion. That was where this other man got my father’s pocketwatch and pocketknife along with some other things my father almost always kept with him whenever we went anywhere.”
(New York, Four Walls Eight Windows, 2000)
La traduzione di questo periodo è mia, le successive citazioni sono tratte dalla versione italiana, pubblicata da Adelphi e tradotta da Paolo Dilonardo

(2) Mi viene in mente un altro ragazzino che apre un romanzo più o meno così:
“Non potete sapere niente di me se non avete letto un libro intitolato Le avventure di Tom Sawyer; ma non importa.”