Il mese scorso, mentre facevo la spesa, fra il reparto verdura e lo scaffale delle prelibatezze ho trovato un cesto pieno di libri. Ne ho aperto qualcuno e questo incipit mi ha folgorato: è l’impronta di una trovata geniale (come quella di cui avevo già parlato qui), e mi ha subito conquistato.
Si tratta de L’amico immaginario, di Matthew Dicks, edito da Giunti nel 2012, ma il titolo originale è diverso: Memoirs Of An Imaginary Friend. Io avrei tradotto il titolo come Autobiografia di un amico immaginario (chissà perché, ma ogni tanto gli editori si credono più bravi dell’autore e gli “aggiustano” il titolo).
Io non ho mai avuto un amico immaginario, benché ne abbia sempre sentito parlare, e non è una novità che alcuni personaggi di bambini (in film e libri) siano descritti anche attraverso l’attribuzione di un’amico immaginario… tuttavia l’idea di raccontare una storia dal punto di vista di un amico immaginario non l’avevo mai sentita: perciò l’ho trovata letteralmente originale. Metto subito il libro nel carrello e una volta a casa comincio a leggerlo.
Vengo a sapere che la longevità di Budo è praticamente un’eccezione nel panorama degli amici immaginari, perché appena il bambino reale cresce, perdendo le insicurezze che hanno dato vita al suo amico di fantasia, questi si dissolve. Il fatto è che Max non è un bambino come tutti. Sì… va a scuola, come gli altri bambini della sua età (lui ha nove anni), ma ha molta immaginazione e diverse insegnanti di sostegno, perché ogni tanto il mondo lo manda in tilt, ad esempio quando deve decidere fra due ghiaccioli di diverso colore, o se la routine a cui è abituato per qualche ragione si interrompe. Preferisce stare da solo e il momento che meno ama della scuola è la ricreazione, proprio perché si sente più esposto con i compagni. Budo lo aiuta; così, se sta per bloccarsi, gli suggerisce: “Prendi il ghiacciolo azzurro”, e allora Max non si blocca.
Ma Budo non è immaginario, vi ricordate? è una delle prime cose che ci dice: “Non sono immaginario”. No, Budo ha una sua vita, indipendentemente da Max. Ad esempio quando Max la notte dorme, lui non finisce in un limbo, né si addormenta (Max non ha immaginato che potesse farlo), bensì rimane a guardare la tele assieme ai genitori di Max, oppure, quando vanno a letto anche loro, raggiunge il generi alimentari della pompa di benzina lì vicino. Quello è un posto che gli piace molto: ama i due commessi che ci lavorano. Se deve uscire di casa per lui non è importante sgattaiolare dalla porta approfittando che uno dei genitori la apra, magari per controllare se era stata chiusa a chiave, come faccio io ogni sera, perché lui le può attraversare, le porte: Max l’ha immaginato con questa facoltà.
Mentre leggo trovo tutto ben costruito e perciò coinvolgente, anche perché ogni tanto c’è qualcosa che desta nuovamente la mia attenzione, come nei thriller scritti come si deve. E a un certo punto ciò che mi inchioda alle pagine del libro è che Budo ha paura di morire. L’ha visto succedere a tanti amici immaginari, perché fra di loro si possono vedere e persino parlare… sempre che il bambino che li ha creati si sia ricordato di immaginare la bocca. Budo ad esempio ha conosciuto un amico immaginario a forma di stecchino, e quello non aveva nemmeno gli occhi, né le orecchie, infatti era il frutto di un bambino davvero piccolo. Ma, dicevo, Budo ne ha visti sparire parecchi di amici immaginari. Prima diventano trasparenti, la voce si fa flebile, un sussurro appena percettibile, quindi svaniscono; senza fare rumore. Ecco, Budo ha paura di morire perché, vi ricordate? lui ce l’aveva detto subito che era reale: “Non sono immaginario”. E le cose vere a un certo punto muoiono.
Se il libro mi aveva colpito per l’idea di scegliere come protagonista un amico immaginario (per la mia sensibilità di lettore è come scrivere un libro su un burattino di legno che prende vita), ora l’opera di Matthew Dicks mi stordisce letteralmente. E’ come se salisse nuovamente di livello. Non è la prima volta che mi imbatto in questo meccanismo, mi vengono in mente due film, Inception, di Christopher Nolan (2010), in cui appare l’idea del sogno nel sogno, e Nove regine, di Fabián Bielinsky (2000), in cui lo spettatore assiste alla storia di una truffa per poi scoprire, alla fine della storia, che lui stesso è stato ingannato. Mi sento trascinato in un gorgo di creatività.
Ecco cosa mi succede: sono affascinato dall’idea di una persona immaginaria ma reale, angosciata all’idea della morte. Dove mi porterà l’autore che ha ideato questa storia? Non riesco a immaginarlo, ma sono pronto a seguirlo ciecamente.
In realtà non faccio molta strada, perché a questo punto l’opera si trasforma in un romanzo di genere, il thriller. Non è male, ma mi aspettavo di più.
Solo alla fine del romanzo il tema della morte dell’amico immaginario viene svolto, ma in una maniera a mio parere deludente. Non vi dico nulla, per non rovinarvi il gusto della lettura di un’opera comunque bella, ma aggiungo che il fascino di quest’opera, per quel che mi riguarda, risiede in qualcosa che mi ha fatto solo intuire. Ma non è poco: chissà che un giorno non mi germogli dentro facendomi tirare fuori qualcosa di significativo per me…
L’altro libro bello che non leggerò più è L’estate dei segreti perduti, di Emily Jenkins, pubblicato da De Agostini nel 2015, ma che in realtà si chiama in un altro modo: Eravamo i bugiardi (We were Liars). Chissà perché, ma ogni tanto gli editori si credono più bravi dell’autore e gli “aggiustano” il titolo. In questo caso poi c’è una compagnia di cugini che fra loro si chiamano “i bugiardi” (the liars), e io trovo il titolo originale decisamente accattivante, mentre la soluzione trovata dalla De Agostini mi sembra ordinaria.
Sono arrivato a questo libro sfogliando i titoli finalisti di un’edizione del premio Andersen, che seleziona sempre opere di qualità. L’avevo scelto perché l’incipit aveva qualcosa di strano, sembrava un banale racconto ma allo stesso tempo una nota stonava, allontanando la banalità.
La protagonista è una ragazza di sedici anni, Cadence, convalescente da un incidente di cui non ricorda nulla. Ci descrive la sua ricca famiglia, e l’isola dove ogni anno passa l’estate assieme ai cugini. Il libro si apre con l’illustrazione della pianta dell’isola, con le quattro villette e i relativi moli d’attracco, il campo da tennis, i sentieri in assi di legno che collegano le abitazioni fra loro. Sembra un’illustrazione tipica da libro per ragazzi, così come sembrano cose tipiche da ragazzini i ricordi della protagonista, ma c’è sempre qualcosa che mi impedisce di liquidare il libro come un ordinario prodotto di fascia (in questo caso: young adult). E meno male, perché continuando la lettura mi rendo conto che la storia è tutt’altro che scontata, e mi sorprende.
Non dirò in cosa consiste la sorpresa, perché altrimenti svelerei il senso del romanzo, che invece deve essere conquistato con paziente fiducia, e vi invito a farlo, ma spiegherò perché anche quest’opera, come già L’amico immaginario di Matthew, io non la leggerò più.
Non la leggerò più perché dopo un colpo di scena magistrale in cui Emily Jenkins affronta il tema della morte, legandolo a quello della colpa, vi aggiunge un capitolo, poco prima della fine, dove la morte viene addomesticata. Un mio amico dice che quel capitolo è addirittura “sbagliato”; io non lo trovo sbagliato, ma un poco opportunista. Dopo aver portato un romanzetto adolescenziale sull’orlo di un’opera drammatica degna di (rullo di tamburi) Dostoevskij, l’autrice mi da l’impressione di essersi voluta tenere entro i canoni del genere. Ho la sgradevole sensazione di trovarmi, dopo aver vagato senza difese per la savana, di fronte a una gabbia di leoni allo zoo. Io credevo che la savana fosse vera, invece era solo una finzione.
Non so se la Jenkins abbia espresso con sincerità quello che aveva dentro e semplicemente sono io ad aver immaginato qualcosa che in realtà non c’era, voglio dire, magari lo scopo dell’autrice era proprio quello di organizzare una gita nello zoosafari di Ravenna e io, che sono sensibile e suggestionabile mi sono sentito veramente in Africa (quindi, per inciso, come animatrice è stata super-brava-bravissima), ma ho il sospetto che lei in realtà abbia cercato di compiacere quegli editori che ogni tanto cambiano il titolo, perché loro sì, sanno cosa il pubblico vuole.
Tuttavia, c’è qualcosa di molto buono in questo libro young-adult, leggetelo.