È autunno e un uomo giunge nel paese di Gafeira, in Portogallo, situato nei pressi di una laguna, un centinaio di chilometri a nord di Lisbona. In realtà ci torna esattamente un anno dopo esserci stato l’ultima volta, e per lo stesso motivo: partecipare a una battuta di caccia ai germani, alle folaghe e agli svassi che in quel periodo popolano quell’area. È un cacciatore, quindi, ma anche uno scrittore, ce lo dice quasi subito, mentre nella medesima stanza della locanda dove aveva preso alloggio l’anno precedente sfoglia un libro, una cronaca del paese di Gafeira scritta da un abate fra il 1790 e il 1801. Ora che abbiamo letto questa precisazione temporale diventa importante sapere in che anno il protagonista sta parlando con noi, ma lui non ce lo dice subito, così io penso che sia nel presente, ovvero nel momento in cui il libro viene scritto.
All’inizio l’unica cosa che ci è permesso sapere è che Il Delfino, di José Cardoso Pires, viene pubblicato nel 1968, perché è questo il romanzo di cui stiamo parlando, quindi immaginiamo che sia stato scritto poco prima, chissà, nel 1967, o 1966. In realtà potrebbe essere stato scritto prima ancora, perché a volte i romanzi impiegano molti anni a trovare un editore, però quando arriveremo nell’ultima pagina troveremo indicato l’esatto arco temporale in cui si sono svolti gli avvenimenti che abbiamo appena finito di leggere: dalla mattina del 31 ottobre all’alba del 1 novembre 1966.
Dunque Il Delfino si apre e si chiude con due indicazioni temporali, e il tempo, infatti, per me che negli anni leggo e rileggo questo libro, è il vero soggetto del romanzo.
La trama assomiglia a un’indagine poliziesca. Quando lo scrittore-cacciatore arriva per la seconda volta a Gafeira viene a sapere di una tragedia occorsa all’ingegnere Palma Bravo, ultimo discendente di una schiatta nobiliare che (lo attestano le cronache dell’abate), da secoli determina la vita di quel luogo. È lui il Delfino, nel senso di successore dei suoi avi. Sua moglie e il servo sono morti (qualcuno parla di omicidio), e dell’ingegnere non c’è più traccia. Il reperimento delle notizie riguardanti la disgrazia è inframmezzato dai ricordi del narratore degli incontri avuti con l’ingegnere e la moglie durante la sua visita precedente. Sono incontri che sarebbe eccessivo definire “fra amici”, perché il narratore e il Delfino sembrano studiarsi, come animali di due specie differenti. Da quello studio emergono il carattere e la mentalità dell’ingegnere.
Antonio Tabucchi nella prefazione alla seconda edizione italiana del romanzo (Feltrinelli 1992, traduzione di Rita Biscetti), analizza puntualmente il carattere dell’ingegnere Palma Bravo, evidenziando come incarni la mentalità del salazarismo. Sottolinea come Cardoso Pires avesse colto, nel momento in cui il regime fascista del Portogallo era ancora lontano dal dare segni di cedimento, l’essenza di quella che a posteriori può essere letta come l’indagine della sua senescenza. È una lettura pertinente del libro di Carso Pires, ma non evidenzia il carattere che lo rende un classico senza tempo.
Ciò che di rimarchevole io trovo nel Delfino è l’atmosfera di immobilismo in cui il narratore protagonista si trova immerso. Attraverso di essa Cardoso Pires rende palpabile la sensazione di trovarsi dentro uno sgradevole presente senza speranza di evoluzione.
Tutto infatti sembra essere immutabile a Gafeira. Lì, centro che sorge sui resti di antiche terme romane, il tempo sembra essersi fermato. Gli ultimi secoli sembrano non aver impresso un segno. L’unica novità è il profilo di un nuovo tipo di lavoratore: i contadini-pescatori sono ora diventati operai-contadini, ma i rapporti di forza fra loro e i signori del luogo sono sempre gli stessi.
Anche l’indagine dello scrittore-cacciatore appare immobile. Raccoglie le informazioni sullo scandalo dell’ingegnere-Delfino nella locanda, parlando con la proprietaria; o nel bar che si affaccia sulla piazzetta del paese, ascoltando i pettegolezzi dell’ambulante che vende i biglietti della lotteria e le chiacchiere degli avventori. Per il resto il suo è un lavoro di memoria: ricorda le occasioni in cui ha frequentato Palma Bravo e la sua sposa e cerca di far combaciare quei ricordi con le notizie che gli vengono fornite ora. Il servo, (il domestico comandato dal Delfino allo stesso modo con cui egli comandava la coppia dei suoi pastori tedeschi), forse aveva una tresca con la moglie… La moglie, insofferente nei confronti del marito e della vita nella villa ai margini della laguna, forse trovava nel servo una virilità che il marito ostentava solo a parole… Magari il rapporto fra l’ingegnere e il servo nascondeva una latente omosessualità…
Il narratore non fa che raccogliere indizi e impressioni, e quando il quadro degli avvenimenti risulta completo noi lettori rimaniamo ancora con una sensazione di incompiutezza. Come se la verità “vera” non sia quella dei fatti alla fine ricomposti, bensì la si trovi nella riflessione che essi suscitano in noi, senza che questa venga formulata nel testo.
La lentezza dell’indagine, una lentezza che rispecchia la difficoltà emotiva di condurla, è resa emblematicamente da due capitoli simili, e segnati in maniera significativa con lo stesso numero cardinale proposto in due varianti: XXVI-a, e XXVI-b. I capitoli hanno in comune una gita in barca sulla laguna fra il narratore e l’ingegner Palma Bravo e infine l’arrivo alla villa, ma parlano anche di cose differenti. È come se Cardoso Pires ci trasmettesse la difficoltà di fare un discorso compiuto ed esauriente, perché la realtà, quanto meno quella a cui si trova di fronte il suo scrittore-cacciatore, non è semplice da raggiungere, e le strade per arrivarci (le scelte narrative), sono molteplici.
In un altro punto il narratore cita una considerazione reperita in una rivista a proposito di un processo dell’epoca:
“I ruoli dei testimoni erano stati, nel rigoroso senso letterale del termine, imparati a memoria e ripetuti fino alla sazietà, in modo che nei dibattimenti chi compariva non erano le persone reali, ma la rappresentazione che quelle avevano costruito di se stesse e delle tesi per le quali si battevano.” (p. 81)
Sembra che lo scrittore-cacciatore sia ben consapevole che la realtà possa essere trasfigurata, e che la si debba cercare solo dietro le maschere che i personaggi si mettono sul volto (o noi per loro, magari). Si spiega così perché colui che ci narra la storia torni più volte su certi ricordi, aggiungendo via-via nuovi particolari, e osservazioni. Non leggiamo una storia lineare, e non solo perché il presente viene intervallato da numerosi flashback, ma perché l’idea stessa di narrare una storia compiuta, con un inizio, uno svolgimento e un finale, è scartata dal nostro cacciatore.
La lenta contrapposizione fra indizi raccolti e analisi del passato produce in chi si è incaricato di raccontare questa storia un senso di stanchezza, che alla fine del libro diventa insostenibile, tanto che il narratore ci lascia invocando, dopo una notte in bianco, finalmente il sonno.
Emblema dell’eterna lentezza in cui si trova sprofondato il narratore è un’antica muraglia, fasto dell’impero romano, che costeggia la piazzetta del paese:
“Ogni giorno, anno dopo anno, secolo dopo secolo, questa muraglia, appena sorto il sole, proietta la sua ombra sulla piazza, trascinando con sé l’ombra della chiesa. Se la porta via, viaggia con lei sul deserto di buche e di polvere, copre il suolo, lo raffredda e, a mezzogiorno, scompare, cacciata via dal sole a picco. Ma il pomeriggio è suo. Nel pomeriggio l’ombra ricomincia la sua invasione, aumentando via via che la luce si indebolisce.” (p. 21)
E appoggiata sulla muraglia, confondendosi con lo stesso colore di pietra, a un certo punto il detective di quel mondo immobile individua una lucertola,
“… come una scheggia di pietra sopra un’altra pietra più grande e più antica, ma come tutte le lucertole, una scheggia sensibile e vivace sotto quel sonno apparente. Pensai: il tempo, il nostro tempo meschino.” (pp. 55-56)
Ancora più oltre il narratore ribadisce l’identificazione fra lucertola e tempo:
“Di pensiero in pensiero andrò lontano, girerò per arrivare a casa dell’ingegnere conquistata dalle lucertole, che sono, per me, il tempo (portoghese) della storia.” (p. 150)
Ciò che fa del Delfino un classico, ovvero un libro senza tempo, non è la denuncia di un conformismo culturale capace di sostenere la dittatura di un Paese immobile, quanto la capacità di materializzare il senso di soffocamento di chi si trova immerso in essa. Perché chi vive in un tempo senza futuro (un passato che si perpetua), si sente togliere l’aria.
Magari, se qualcuno prendesse un atlante e cercasse Gafeira secondo le indicazioni che Cardoso Pires ha lasciato nel Delfino, potrebbe pensare che quel paese non esiste, perché di fatto non c’è, ma si sbaglierebbe. Perché Gafeira non è un luogo fisico, bensì dell’anima. Dovunque il conformismo imperi, lì c’è Gafeira, e, forse, per nostra estrema fortuna, anche uno scrittore-cacciatore che ce ne parla.