A proposito di Davis (Inside Llewyn Davis), il film dei fratelli Coen del 2013, è la storia di un cantautore nel Greenwich Village del 1961. Ciò che lo rende eccezionale ai miei occhi non è però l’ambientazione d’epoca (a tutti gli effetti è un film in costume), e non solo o non tanto la storia, ma la rappresentazione artistica di un sentimento: la percezione di un tempo sfalsato, dove passato e presente si mescolano nella vita del protagonista e, attraverso la sua, in quella di noi spettatori.
I fratelli Coen raggiungono questo risultato con un effetto speciale che non è frutto della computer grafica ma di una tecnica narrativa: omettono un’informazione all’inizio del racconto e ce la rivelano alla fine.
Ecco, se non avete ancora visto il film, fermativi qui, perché svelo una sorpresa; se invece l’avete già visto, proseguite pure la lettura.
Le prime immagini che scorrono sullo schermo sono quelle di Llewyn Davis (interpretato dal bravissimo Oscar Isaac) che canta una canzone in un fumoso locale frequentato da giovani attenti. Finita l’esibizione il proprietario del locale lo avverte che un tizio, uno che dice di essere un suo amico, lo sta aspettando nel vicolo sul retro. Il folk singer esce, e nel vicolo avvolto dalla penombra della notte si prende due cazzotti in faccia. Dissolvenza: un gatto, nella luce di un giorno di sole, percorre veloce il corridoio di un appartamento, si infila in una stanza, salta sul letto dove dorme Llewyn Davis e così lo sveglia. Sera, mattina.
L’informazione mancante è che non si tratta della mattina che segue la sera in cui Davis si è preso due cazzotti, ma di un’altra. In realtà potremmo capirlo notando che il volto del protagonista non ha lividi o occhi gonfi, ma se chi racconta la storia ci dice che è sera e poi giorno, senza specificare che si tratta di un’altro giorno, il nostro cervello ci inganna, perché sa, noi sappiamo, che al giorno segue la sera: sempre, e da sempre.
Alla fine del film scopriremo che il giorno in cui Llewyn Davis viene svegliato dal gatto appartiene al suo recente passato. Noi spettatori abbiamo quindi assistito al racconto di un lungo e unico flashback, una tecnica narrativa molto usata nel cinema, però molto più vecchia di questa arte, infatti ha un nome antico, che viene dal greco: analessi.
In effetti, nel cinema, i flashback vengono appunto annunciati da una dissolvenza, quindi potremmo dire che Joel ed Ethan non ci hanno teso nessuna imboscata, ma la dissolvenza può essere usata anche per passare da una scena all’altra, come il tendone del teatro che si abbassa ogni volta che si deve cambiare scenografia sul palco. E poi le abitudini del nostro cervello fanno il resto: chiunque abbia visto Inside Llewyn Davis alla fine del film è rimasto sorpreso scoprendo di aver guardato un lungo flashback.
L’analessi prende il suo nome dalla lingua greca perché appare in opere greche che noi consideriamo “classiche”, quali l’Odissea. Ne troviamo un esempio celebre nel canto XIX, nel momento in cui Ulisse, tornato ad Itaca, incontra la vecchia serva Euriclea. Penelope ordina alla serva di lavare i piedi al povero viandante ospite di casa sua, e quando Euriclea scorge sotto il ginocchio di Odisseo la vecchia cicatrice di caccia, riconosce in quel misero vagabondo il suo signore. Ma fra il momento in cui la vecchia vede la ferita e quello in cui la tocca “con le mani aperte”, lasciando ricadere per lo stupore il piede di Ulisse nel bacile, Omero inserisce un racconto di un’ottantina versi, la storia di quella ferita.
Se dal ritorno dell’eroe ad Itaca fino all’incontro con Euriclea possiamo rappresentare la narrazione come una linea retta, nel momento in cui l’antica serva scorge la cicatrice la linea si impenna e si volge all’indietro, disegnando un cerchio che si completa tornando al punto di partenza: il tempo si è avvolto su se stesso, con un salto mortale il narratore ci ha riportati al presente, dove il piede di Ulisse cade nel bacile.
Il fascino di questa digressione è che viene inserita senza soluzione di continuità; il passato si innesta nel presente all’interno della stessa frase:
“Lei andò vicino al suo re e lo lavava: e subito riconobbe la cicatrice della ferita che con le bianche zanne gli inflisse un cinghiale quando [Ulisse] salì sul Parnaso insieme ad Autolico ed ai suoi figli, Autolico, che era il padre di sua madre ed era noto fra gli uomini per essere ladro e spergiuro: così lo rese Hermes…” (Odissea, Omero, trad. di Maria Grazia Ciani, Marsilio 1994, pag. 653)
Autolico è il nonno materno di Ulisse, colui che scelse il suo nome (Odisseo). Quando Omero ripete il nome di Autolico per la seconda volta, senza interrompere la frase, ci impedisce di distrarci, e noi ci lasciamo guidare dalla sala in cui Ulisse si fa lavare i piedi da Euriclea, alla foresta sul Parnaso dove, da ragazzo, andò a caccia di cinghiali con il nonno e gli zii, e un cinghiale lo azzannò. Dopo aver ucciso quel cinghiale Odisseo ritornò a Itaca, e qui narrò ai genitori l’avventura mostrando loro la ferita, la stessa che, apparendo ora sotto gli occhi di Euriclea, le svela l’identità dell’ospite… e dallo stupore lei lascia cadere il suo piede nel bacile.
Questa digressione all’indietro ci ha riportato al punto di partenza e da qui la narrazione torna a scorrere in senso orizzontale, seguendo il normale corso del tempo, dal passato al presente verso il futuro. Si tratta però di un’analessi molto diversa da quella che i fratelli Coen usano per raccontarci la storia di Llewyn Davis: noi non dimentichiamo mai la distinzione fra il presente (Ulisse a cui Euriclea si accinge a lavare i piedi) e il passato (la storia della cicatrice). E, soprattutto, per i Coen il flashback non è una parentesi, ma l’arco esatto del racconto: quando si conclude l’analessi finisce il film.
La tecnica di Ethan e Joel ha l’effetto di spiazzarci. Credevamo di avere tutto sotto controllo, stavamo assistendo, seduti in un cinema o sul nostro divano, al racconto della vita di un folk singer, invece scopriamo che non controllavamo nulla, era la narrazione a controllare noi.
Ma non è tutto. Questa tecnica narrativa non è finalizzata a un mero colpo di scena, bensì è parte inscindibile dello stesso messaggio del film: la vita stentata e precaria di Davis, che si scontra con un fallimento dopo l’altro (in campo professionale, affettivo, familiare), nel momento in cui ci viene presentata racchiusa in un loop temporale, diviene ai nostri occhi ancora più stentata e precaria.
Il modo con cui si dice una cosa, rende la cosa ciò che è.
Quando io ero ragazzo si diceva: la forma è il contenuto. Non mi ricordo chi lo diceva, comunque io ci credevo, e ci credo ancora.
Tornando ai classici, avete presente il racconto del Conte Ugolino nel canto XXXIII dell’Inferno di Dante? Ecco, Dante lì ci dice tutto, per filo e per segno, non c’è spazio alla nostra immaginazione, tanto la sua è esaustiva.
Invece, in questo film dei fratelli Coen, quando ci rendiamo conto che non stavamo vedendo quello che credevamo, siamo costretti a ripensare a tutto ciò che abbiamo visto fino a quel momento da un’altra prospettiva.
Parlando ancora di poesia, la poetica di questo film dei Coen si avvicina alla forma dell’haiku giapponese, come questo:
“Il tetto si è bruciato —
ora
posso vedere la luna.”
(Masahide)
Il poeta non spiega cosa è successo, non dice tutto, la sua poesia lascia spazio all’ascoltatore: con la propria immaginazione egli riempirà la scena che l’artista gli ha apparecchiato davanti.
In realtà io che guardo Inside Llewyn Davis non ho modo di immaginare cose diverse da quelle che mi sono scorse davanti agli occhi per un’ora e tre quarti, cambia però il sentimento con cui ora le accolgo, e quando ripenso all’agente musicale Bud Grossman che, dopo l’esecuzione straziante da parte di Oscar Isaac della ballata di “Queen Jane”, lo osserva per interminabili secondi e alla fine pronuncia quella sentenza che è la metafora della vita di tutti i Llewyn Davis come me… mi sento risucchiato in un gorgo in cui passato e presente si mescolano in un loop senza uscita, come una domanda a cui giunge sempre la stessa risposta: