Nel 1950 Juan Carlos Onetti pubblica il romanzo La vita breve (Editorial Sudamericana, Buenos aires). È la storia di un’alienazione che a me ricorda l’inadeguatezza di fronte alla vita di un personaggio di Jean Paul Sartre, il protagonista di Erostato (dalla raccolta Il muro), un uomo frustrato che odia l’umanità intera e dall’alto di un palazzo spara sui passanti. Però quello che ha di affascinante il romanzo di Onetti è che l’autore non fa parlare il protagonista per descriverci la sua alienazione, bensì per farci precipitare, noi lettori, dentro di essa. Non ci troviamo di fronte a una narrazione in prima persona che ci illustra l’impotenza e il risentimento di chi parla, ma finiamo dritti nella sua mente. Sartre descrive un’alienazione, Onetti la materializza.
Se trovo già di per sé questa cosa affascinante, la seduzione è ulteriormente accresciuta, ai miei occhi, dal meccanismo adoperato da Onetti per realizzare la coincidenza fra forma e contenuto, ovvero attraverso il processo di invenzione e distorsione della realtà messo in atto dal protagonista della storia, Juan Maria Brausen.
Brausen è un pubblicitario sposato da cinque anni con Gertudris, reduce dall’ablazione del seno sinistro. Sono una coppia in crisi e man mano che l’azione si sviluppa assistiamo alla fine definitiva del loro rapporto. Anche dal punto di vista professionale Brausen sta attraversando un momento difficile, perché il suo licenziamento nella ditta è nell’aria fin dalle prime pagine, e presto si trasformerà in una certezza. Accanto alla precarietà del matrimonio e della situazione economica Brausen deve fare fronte anche a un altro fattore di crisi, l’età, poiché ha quaranta anni. Certo, per noi oggi che leggiamo La vita breve settanta anni dopo che è stata scritta, non diremmo mai che un quarantenne non ha futuro. Ma in questi ultimi settanta anni è cresciuta l’aspettativa di vita media nonché la qualità dell’esistenza, sicché i quaranta anni di allora sono i cinquanta di oggi, e a cinquanta anni sappiamo che non è facile ricominciare da capo. Di fatto Brausen ci appare distaccato, afflitto da un senso di pesantezza verso tutto ciò che lo circonda.
In questa situazione critica al protagonista accadono due cose importanti: nell’appartamento di fianco al suo giunge una nuova inquilina, “la Queca”, e un collega di lavoro e amico gli suggerisce di elaborare un soggetto cinematografico a sua scelta, sperando di riuscire a venderlo.
Le pareti sottili fra i due appartamenti permettono a Brausen di origliare le voci, i rumori che accadono nella stanza da letto, adiacente alla sua, e da subito si dedica a decifrarli, immaginando cosa stia succedendo, come se lui fosse lì presente. È così che inizia il romanzo:
“[…] La sentivo attraverso la parete. Immaginai le sue labbra in moto davanti all’alito di ghiaccio e di fermentazione della ghiacciaia o allo stoino di cannicci torrefatti che doveva essere rigido tra il pomeriggio e la stanza da letto, a ombreggiare il disordine dei mobili appena arrivati.” (La vita breve, traduzione di Enrico Cicogna, Feltrinelli 1970, p. 11)
In un primo tempo l’interesse di Brausen per la vicina ci appare distratto, un gesto ozioso per riempire le ore in cui si trova da solo nell’appartamento e che si inframmezza al differente processo di immaginazione, la finzione del soggetto per il cinema. A proposito di quest’ultimo Brausen comincia a pensare a un medico:
“C’è un vecchio, un medico che vende morfina. Tutto deve partire da lì, da lui, forse non è proprio vecchio, ma è stanco, arido”. (p. 17)
Da subito si prefigura un collegamento fra il personaggio inventato e il suo autore, infatti, oltre alla stanchezza dell’animo, anche la morfina fa parte della sua vita, visto che se ne serve Gertrudis per curare i dolori post-operatori. E sarà una moglie, la moglie di un altro, che si rivolgerà al medico per chiedergli di venderle delle fiale: Elena Sala. Non privo di significato è il fatto che così come l’idea di scrivere il soggetto è stata suggerita a Brausen da un suo amico, allo stesso modo Elena Sala si rivolge a Diaz Grey dietro suggerimento di un vecchio amico del medico, da cui lei e suo marito si rifornivano di morfina quando vivevano a Buenos Aires. Degno ancora di nota è la stessa consapevolezza di Brausen del legame fra i personaggi inventati e la sua vita:
“Sarebbe entrata sorridente nell’ambulatorio di Diaz Grey-Brausen questa Gertrudis-Elena Sala”. (p. 35)
Il gioco del doppio è costante fra tutte le persone che entreranno nella vita vera di Brausen e in quella immaginaria del medico, e a un certo punto Onetti stesso appare fugacemente nel romanzo in veste di personaggio minore, diventando, nelle parole di Brausen:
“…l’uomo che mi aveva affittato metà dell’ufficio – si chiamava Onetti, non sorrideva, portava gli occhiali, lasciava intendere che poteva essere simpatico solo a donne fantastiche o ad amici intimi…”. (p. 188)
Un altro elemento del romanzo è che non vediamo mai Brausen scrivere, ma così come lui immagina la vita della Queca anche il soggetto del film viene immaginato solo nella sua mente, come un pensiero che gli tiene compagnia, e questo permette a Onetti di ispessire l’ambiguità fra ciò che Brausen immagina e ciò che Brausen vive davvero.
C’è un passaggio fondamentale nel romanzo, ovvero quando Brausen rincasando trova l’uscio socchiuso della vicina con le chiavi infilate nelle toppa e decide di entrare nell’appartamento, che trova deserto. Allora lo esplora e ogni cosa gli appare come un quadro di vita, più precisamente una Natura morta (questo è il titolo del capitolo); in quel momento prova una vertigine:
“Cominciai a muovermi sul pavimento lucidato a cera senza rumore, senza inquietudine, sentendo il contatto con una piccola gioia ad ogni passo lento. Calmandomi ed eccitandomi ogni volta che i miei piedi toccavano il pavimento, convinto di avanzare nel clima di una vita breve nella quale il tempo non poteva essere sufficiente a compromettermi, a farmi pentire o invecchiare”. (p. 56)
Più avanti nel romanzo troviamo un altro passaggio dove Onetti ci spiega, attraverso le parole di Brausen, in cosa consista la “vita breve”:
“… la gente è convinta di essere condannata a una vita, fino alla morte. E invece è condannata soltanto a un’anima, a un modo di essere. Si può vivere molte volte, molte vite più o meno lunghe”. (p. 173)
L’appartamento, la vita breve contenuta in esso (quella della Queca), appaiono a Brausen come la possibilità di cogliere una vita non compromessa e non compromettente, e nelle sue condizioni di uomo fallito dal punto di vista sentimentale, economico e anagrafico, egli decide di entrare in quella vita. Così, un giorno, sotto le mentite spoglie di Arce, che spaccia per un amico di un vecchio amante della Queca (di cui era venuto a conoscenza origliando dietro la parete), si presenta a lei e ne diviene l’amante.
A questo punto noi lettori ci troviamo di fronte a due invenzioni della mente di Brausen: la finzione letteraria, quella di Diaz Grey, e la finzione nella realtà, Arce. Così, se nell’immaginaria città di provincia in riva al fiume, Santa Maria, Brausen vive nel medico che spaccia ricette per la morfina, nell’appartamento accanto al suo il pubblicitario prova sulla propria pelle l’ebrezza di un’altra vita, una vita breve.
“Il nuovo arrivato Arce compendiava il senso della vita”. (p. 154)
Più oltre il protagonista arriva a definirsi come la congiunzione fra Arce (il nuovo sé) e Brausen (quello vecchio):
“Io, il ponte tra Brausen e Arce…”. (p. 185)
Tornando alla Queca, Brausen in realtà non prova amore o affetto per lei, al contrario. Nel momento in cui trovandosi di fronte ad essa scopre di non riuscire ad incasellarla dentro la figura che nella sua mente aveva tratteggiato, si sente pervaso dal risentimento:
“…dall’impossibilità di fondere la donna in carne e ossa con l’immagine formata dalle voci e dai rumori, dall’impossibilità di ottenere l’eccitazione che avevo bisogno di estrarre da lei, nasceva, fino ad invadermi, un crescente rancore, il desiderio di vendicare in lei e una volta per sempre tutti gli affronti che avevano formato quest’uomo piccolo, non più giovane […] che ignorava come fare per mancare di rispetto a una prostituta”.
Se nel mondo di Santa Maria Diaz Grey si sente inadeguato alla bella e seducente Elena Sala, e il suo desiderio è frustrato, nel momento in cui Arce diventa l’amante della Queca (o quanto meno un fruitore non a pagamento del suo corpo), fra quest’ultima e il personaggio fittizio di Elena Sala si stabilisce un rapporto doppio:
“La strinsi, sicuro che non stava accadendo nulla, che tutto non era altro che una di quelle storie che mi raccontavo ogni notte per aiutarmi a conciliare il sonno; sicuro di non essere io, ma Diaz Grey, a stringere il corpo di una donna, le braccia, la schiena e i seni di Elena Sala, nell’ambulatorio e in un mezzogiorno, finalmente”. (p. 83)
Attraverso la Queca quindi Brausen riesce a ottenere quella soddisfazione che addirittura una sua fantasia gli negava. Forse, perché le cose immaginate dagli scrittori non sono mai false, e per poter essere autentiche devono basarsi su un’onesta (pure se distorta), percezione del mondo.
La Queca comprende velocemente la natura ambigua e pericolosa delle attenzioni di Brausen-Arce, e chiama il suo protettore, un ragazzo di nome Ernesto, che pesta Brausen e lo getta fuori dell’appartamento, lasciandolo sanguinante in corridoio. Questo avvenimento non scoraggia Brausen che torna dalla Queca e continua a vederla, ma allo stesso tempo si procura un revolver con l’intenzione di vendicarsi di Ernesto. Di fatto, poco alla volta, il pensiero di uccidere Ernesto si trasforma in quello di uccidere la Queca. Allora, prima del suo assassinio…
“…le avrei appoggiato, appesantita, contro l’orecchio, la mia voce, senza l’assillo del tempo, senza curarmi della sua comprensione, sicuro che sarebbero bastati pochi minuti per vuotarmi completamente di tutto ciò che avevo dovuto inghiottire fin dall’adolescenza, di tutte le parole soffocate per inerzia, per mancanza di fede, per il sentimento di inutilità di parlare”. (p. 218)
Man mano che il romanzo procede l’immaginazione del mondo di Diaz Grey si approfondisce sempre più, arricchendosi di nuovi personaggi e situazioni, e occupando interi capitoli che intervallano quelli dedicati alla vita vera di Brausen. Una vita che al contrario perde di significato:
“… capii che da qualche settimana ormai sapevo che io, Juan Maria Brausen, e la mia vita non eravamo altro che stampi vuoti, pure rappresentazioni di un vecchio significato […] Io ero scomparso il giorno impreciso in cui il mio amore per Gertrudis si era concluso; sussistevo nella doppia vita segreta di Arce e del medico di provincia. Risuscitavo quotidianamente quando entravo nell’appartamento della Queca…”. (pp. 130-131)
Finzione e realtà si contaminano fra loro, come quando Diaz Grey si accorge di essere un personaggio inventato da Brausen:
“[Grey] arrivava a intuire la mia esistenza, a mormorare «Brausen mio» con fastidio”. (p. 139)
E più oltre:
“[Devo] muovermi come un animale o come un Brausen… fino a sentirmi una incomprensibile e non significante manifestazione della vita, capriccio generato da un capriccio, timido inventore di un Brausen, manipolatore dell’immortalità…” (pp. 141-142)
Nel corso della storia la finzione nel mondo reale è sempre più alimentata da quella del mondo fittizio:
“…sostenevo Arce per mezzo di Diaz Grey […] il denaro, la Queca, Santa Maria e i suoi abitanti.” (pp.177-178)
Finché a un certo punto la finzione di Santa Maria si emancipa dal suo autore, e ciò accade quando Brausen, in un momento in cui non sa come proseguire la sua immaginazione del mondo fittizio di Diaz Grey, si accorge che è il suo personaggio a prendere l’iniziativa:
“…un pomeriggio di domenica Diaz Grey venne a liberarmi dall’ossessione, fece per me e per se stesso quello che io non potevo fare, saltò un anno del suo tempo, lasciò Santa Maria come se tagliasse un braccio, come se gli fosse possibile allontanarsi dalla città di provincia e dal suo fiume, collocò Elena Sala in un passato che non sarebbe mai avvenuto”. (p. 190)
Ma a sorprenderci maggiormente sono le righe che seguono subito dopo:
“Il taxi corre sull’avenida Alvear verso Retiro, verso il Bajo, e il primo fresco della sera, l’aria che s’infrange vibrando sul finestrino, mi batte in faccia, aumenta la felicità del mio corpo…”. (p. 190)
Ecco, chi sta parlando non è il narratore Brausen, bensì la sua creatura Grey, ma possiamo scoprirlo solo proseguendo nella lettura per diverse righe, quando diventa evidente, per le azioni descritte, che può essere solo il medico a compierle. Le due vite, quella di Brausen e quella di Grey, si sovrappongono senza soluzione di continuità. Questo è il punto in cui la finzione letteraria di Brausen comincia a fondersi in maniera quasi inscindibile con la sua vita vera (quella reale e quella “recitata” attraverso la personalità falsa di Arce).
La stessa decisione di uccidere la Queca viene presa dopo che Elena Sala, nella finzione di Santa Maria, muore. Solo che il desiderio di assassinio si trasforma in un altro fallimento: Ernesto lo precede. Non sappiamo perché lo fa, dal momento che i rapporti fra la Queca e il protettore non sono mai stati spiegati. Del resto, tutte le vite che circondano Brausen sono sfocate, poiché viste con i suoi occhi, gli occhi di una persona sprofondata in se stessa.
Tuttavia anche se Brausen non riesce a compiere il gesto estremo che nella sua fantasia l’avrebbe fatto coincidere con Arce (e in cui la Queca è la vittima necessaria e sacrificale), cancellando così la sua vecchia esistenza, egli comprende di poter raggiungere ugualmente quel risultato proteggendo Ernesto. Si offre infatti di organizzare la sua fuga, anzi, di fuggire con lui. Nonostante la cosa sorprenda il protettore, questi, stordito dal crimine appena commesso, finisce per affidarsi a Brausen. E Brausen decide di scappare… a Santa Maria:
“Stavano accendendo le luci della piazza quando arrivammo a Santa Maria […] ciò che mi ricordavo della città o che io avevo immaginato per lei era lì”. (p. 265)
Nella città di Santa Maria, regno dell’immaginazione, fa irruzione anche la realtà, quando i poliziotti sulle tracce dell’assassino della Queca trovano la coppia di fuggitivi e cercano di arrestarli. E allora c’è il finale. L’ultimo capitolo… interpretato dai numerosi personaggi della finzione del dottor Grey: essi sono ricercati per traffico di stupefacenti e la polizia li sta braccando. Non è importante sapere cosa succede. È importante sapere che La vita breve di Onetti si conclude lasciando la parola all’invenzione di Brausen.
Perché Onetti, lo capiamo solo ora, non ha voluto raccontarci la storia di Brausen, ma solo la sua vita breve.
P.S. A febbraio 2021 uscirà la nuova traduzione de La vita breve ad opera di Gina Maneri per le edizioni Sur.