C’è un tassista che gira per Teheran, però non è molto bravo, infatti un passeggero glielo dice, “Ma che tassista sei, se non sai qual è il tragitto più breve per andare da lì a là?”. In effetti non è un vero tassista, tant’è che qualcuno lo riconosce: “Signor Panahi, che onore!”. Jafar Panahi è un regista, questo spiega perché se na vada in giro con una piccola videocamera (o uno smartphone) installata sul cruscotto del taxi: sta girando un film, Taxi Teheran, vincitore nello stesso anno di uscita (il 2015) dell’Orso d’oro a Berlino come migliore film. Panahi lo sta girando nonostante sia stato diffidato dal suo governo di farlo.
Nel taxi entra un’umanità varia: il venditore abusivo di DVD vietati nel paese; due donne che devono compiere, con due pesciolini in una brocca, un rito religioso o scaramantico (per mia ignornaza non sono riuscito a capirlo); un passeggero che chiede pene di morte esemplari; un altro che invece trova sbagliata questa idea; un amico del regista che ha subito un furto con aggressione (è finito in ospedale, se ricordo bene), e pur avendo riconosciuto gli autori del reato non li ha denunciati per non assicurarli alla violenza della giustizia: “Erano in serie difficoltà, ora se la passano meglio”; un uomo che ha avuto un incidente e che registra al telefonino le sue ultime volontà per impedire che in caso di morte a sua moglie non rimanga più nulla…
A un certo punto sul taxi, nel posto accanto al conducente, si accomoda la nipotina, una bambina sui dieci-undici anni, che a scuola ha imparato le regole per girare un film decente, ovvero che non offenda i dettami religiosi. Ad esempio, un buon film dovrebbe mostrare una buona azione. La bambina in realtà lo sta girando un film, con il suo telefonino (proprio come lo zio!), e quando rimane sola in macchina filma un bambino che raccoglie un portafoglio caduto a un passante… e se lo intasca. Questa, non è una buona azione, le rovina tutto il girato, allora lo chiama, glielo spiega e gli chiede di restituire il portafoglio al legittimo proprietario. Ma lui, accidenti, non le da retta. Meno male che suo zio è una brava persona e quando trova un borsellino sul sedile dei passeggeri ― e intuisce che appartiene a una delle due donne con i pesciolini ― sapendo dove trovarle le va a cercare. Il film finisce con Panahi che una volta accertata la presenza delle donne proprio dove aveva supposto, esce dal taxi in compagnia della bambina per restituire il borsellino. Eccola, la buona azione che salva il film.
Poi arrivano due ragazzi in moto, scendono, scassinano la portiera e si portano via la videocamera (o lo smartphone), e forse chissà, pure il taxi. Questo, non potremo mai saperlo, perché la videocamera non c’è più.
Taxi Teheran Panahi l’ha scritto e diretto, ci ha recitato da protagonista, ha curato la fotografia e il montaggio. E’ un film fatto con pochi mezzi, ma ciò che mi colpisce non è tanto l’enorme risultato raggiunto con le esigue risorse a disposizione, quanto il sentimento che deve aver guidato questo artista: l’urgenza. Quando hai qualcosa di urgente da dire (e non sei in prigione), trovi sempre un modo per dirla.