In una notte buia Peter Handke sognò una letteratura differente

In un sito web che vende libri mi sono imbattuto in questa recensione di In una notte buia uscii dalla mia casa silenziosa, scritto da Peter Handke, tradotto da Rolando Zorzi e pubblicato in Italia nel 1998 da Garzanti.

“Questo libro è il nulla…il nulla, scritto per giunta male. Odio stroncare o parlar male di un libro ma, in tutta onestà, non ho mai trovato in vita mia una scrittura più atroce. Confusionaria a dir poco, con incisi ogni due parole, sempre inutili, che non aggiungono nessun valore alla narrazione. Nulla, né i personaggi né il paesaggio, o ciò che accade, sono delineati, tutto buttato sulle pagine in maniera grossolana e superficiale.”

A me questo libro invece piace. Forse perché la mia mente è atroce, o confusa, o magari grossolana e superficiale. O forse perché il mio sentimento del mondo si accorda a quello di Peter Handke e per essere espresso necessita di una scrittura che qualcuno, come il recensore citato in apertura, può trovare incomprensibile e irritante. Del resto, non tutto è comprensibile allo stesso modo per tutti. O, meglio ancora, ciascuno di noi è predisposto a contemplare certe cose e a scartarne altre.

Nel romanzo In una notte buia… l’io narrante è un personaggio esterno al protagonista, l’amico di un suo conoscente. Il protagonista è “il farmacista di Taxham” (un paese vicino a Salisburgo); così ci viene presentato. L’amico del narratore è un insegnante di lettere classiche Andreas Loser (protagonista di un precedente romanzo di Handke). Il farmacista racconta una storia al narratore, e il narratore la trasforma in questo romanzo.

La storia comincia a pagina 50 dell’edizione italiana, e fino ad allora noi lettori non ci siamo trovati di fronte a un preambolo. Credo che questo costituisca il primo motivo di disappunto del nostro severo recensore. Ai fatti narrati nelle prime 41 pagine (il romanzo comincia a pagina 9) manca il clima di crescendo che prepara il lettore a una conseguenza. Ci viene descritta la vita del farmacista nei dettagli – è divorziato dalla moglie con cui continua però a dividere la casa; gestisce una farmacia dove lavorano due immigrati slavi, madre e figlio, profughi di guerra; ama preparare alcune medicine di persona; è un cercatore di funghi e apprezza le qualità allucinogene di alcuni; il suo senso più sviluppato è l’olfatto; ama camminare; ama leggere i poemi cavallereschi… – ma nulla ci prepara a un colpo di scena, e quando questo arriva la narrazione continua ad avere il tono descrittivo che ha caratterizzato la prima parte del romanzo: non c’è variazione di pathos. Uno dei fatti salienti della prima parte è che il farmacista, una volta uscito dalla farmacia, diventa difficilmente riconoscibile agli occhi degli altri abitanti, quasi fosse invisibile, o un estraneo nel suo stesso paese.

Un giorno, mentre si trova in campagna, sorpreso dalla pioggia, riceve un colpo in fronte. Chi gliel’ha dato, non si sa, ma da quel momento la sua vita cambia. Ripresosi dallo stordimento e accortosi che è ora di cena si reca in un ristorante dove è solito andare, e lì scopre di non poter più parlare. Letteralmente ha perso la parola.

A questo punto Handke comincia a seminare indizi che potrebbero suggerire un’atmosfera onirica: l’oste riesce a capire l’ordinazione del cliente nonostante il suo mutismo (il gesticolare confuso del farmacista viene giustamente interpretato come la scelta del menu del giorno); dopo aver preso l’ordinazione fa notare al cliente che gli sta uscendo il sangue dalla fronte e gli avvolge un fazzoletto bagnato attorno alla testa; il farmacista nota che tutti gli avventori hanno

“un che di trasandato e di caduto in basso […] c’era in loro qualcosa di rovinato e disfatto, una mancanza di orientamento e un’assenza di speranza.” (p. 56)

Quando il ristorante si svuota il farmacista riconosce negli ultimi avventori rimasti due personaggi famosi, un ex-campione di sci e un poeta un tempo famoso. Stanno ridendo ma il farmacista nota che

“avevano la fronte madida di sudore, e pur da lontano lui fiutò che era odore di paura” (p. 57).

In ogni caso all’uscita dal ristorante, quando li vede incamminarsi incuranti sotto la pioggia, lui sale in macchina e senza dire una parola offre loro un passaggio. Quello, sarà l’inizio di un viaggio, dove lui sarà l’autista muto dei due suoi nuovi compagni.

Per prima tappa si recano, su indicazione dello sciatore, in una casa vicina dove avrebbero potuto passare la notte, da una donna che l’ex-campione indica come “la vincitrice”. Lei ha appena perso il marito ma li ospita ugualmente, poi la notte si reca nella camera del farmacista e lo picchia.
Il giorno dopo, su indicazione del poeta – che esorta i compagni di viaggio a “passare il confine”, in un paese dove l’indomani sarebbe iniziata la sagra e in cui vive la sua famiglia illegittima – i tre riprendono la strada. Poco dopo essersi allontanati dalla casa della loro ospite un masso precipita all’improvviso in mezzo alla carreggiata e il poeta scorge la vincitrice, su un picco in alto, allontanarsi “dal luogo del delitto”.

Il tono onirico continua a dominare la storia anche durante il viaggio, dove la strada sembra procedere magicamente nel ventre della terra:

“… non era quasi più possibile valicare dei passi in automobile. La maggior parte dei valichi europei erano per così dire, fuori esercizio, e in genere anche non più utilizzabili, a causa di cadute massi, frane, smottamenti eccetera non rimossi. Invece di attraversare il continente in alto, sui passi, lo si percorreva quasi esclusivamente in basso, nelle gallerie, che frattanto si erano fatte così numerose come altrove le circolazioni rotatorie. […] tutti i controlli di frontiera erano stati aboliti: in nessun posto vedevi una guardia confinaria o un finanziere.” (pp. 72-73)

Lo stesso cammino dei viaggiatori appare irreale, degno di un sogno:

“Così passarono per St. Quentin, Löwen, Santo Domingo, Venezia, Ragusa, Pireos (così!), Geruzalemme, Rangun, Fährbank, gli insediamenti sparsi o i casali di Rosental. Troia, Gerico, Pompei, Heiliggrab/San Sepulcro, Monterrey/Monte Re – cartelli bilingui –, Leida, Bethel, Dallas, Lustenau, Liebenau, Valparaíso, Boston, e passarono anche davanti a un indicatore stradale con la scritta “Taxham” (ma allora ce ne erano almeno due sulla faccia della Terra!).” (p. 82)

Alla fine i tre giungono alla loro meta: Santa Fe, dove il farmacista, senza bisogno di indicazioni, trova la vecchia casa del poeta. Ed è il poeta stesso che ora appare a noi lettori perdersi in un sogno:

“A un certo punto fece per salutare un vicino di un tempo, che del vicino invece era il figlio […] e poi, quando gli capitò che una vicina di un tempo era addirittura la figlia di sua figlia [esclamò]: “Ma in che epoca mi trovo? Mi sono smarrito nel tempo?” (p. 88).

A Santa Fe il farmacista di Taxham si ritrova in una tasca un lettera, probabilmente infilatagli di nascosto dalla vincitrice:

“E la lettera diceva: Tu hai cacciato e ripudiato tuo figlio in un momento d’ingiusta collera. Per questo ti è cresciuto un marchio sulla fronte, e sarà per quel marchio che morirai. Certo, ti è stato tolto per il momento. Ma io farò in modo che ti ricresca. Anche se dovrò picchiarti altre dieci volte. […]” (p. 93)

Così veniamo a conoscenza che il farmacista ha un figlio che ha ripudiato (e possiamo ipotizzare il significato al colpo in testa che ha dato origine al suo viaggio). Da ragazzo, per farsi accettare da una compagnia di amici, il figlio li assecondava in quelle che dovevano essere prove di iniziazione, piccoli furti. E una volta era stato beccato e portato a casa dai gendarmi. Era stato condannato a una pena lieve,

“… poche ore nell’ufficio assistenza minorenni. Fuori, in strada, strinsi mio figlio tra le braccia. Quando succedeva, di solito avvertivo un recalcitrare da parte sue. Ma quella volta non lo sentii. E avevamo anche pianto. Ma poi lo colpii in faccia, e con violenza.” (p. 98)

E poi i rapporti si erano deteriorati.

Una sera, durante i festeggiamenti di Santa Fe, il farmacista di Taxham riconosce in un gruppo di suonatori zingari proprio suo figlio, ma lo trova “inavvicinabile”, e lo perde “senza dire una parola”.

“È meglio che sia andata così”, disse, tanto padre e figlio devono prima o poi separarsi una volta per tutte.” (p. 111)

In realtà questa non sarà l’ultima volta che il farmacista incontrerà il figlio, così come tornerà a incrociare la sua strada con quella della vincitrice, ma non mi interessa raccontare per filo e per segno la storia di questo romanzo perché in realtà gli eventi narrati non sono funzionali a una trama, invece suggeriscono uno stato d’animo, una prospettiva. Al massimo mi preme aggiungere che durante il viaggio di ritorno a Taxham, compiuto senza i due compagni di viaggio e a piedi attraverso un’interminabile steppa (che scopriamo trovarsi in Spagna), il farmacista ritrova la parola. Ciò che mi preme sottolineare è l’atmosfera onirica che lo pervade. Forse, si tratta di un’allucinazione, magari indotta da funghi. Oppure, semplicemente, è un modo per esprimere un sentimento del mondo: quello di chi non lo ricostruisce facendo combaciare le tessere di un mosaico fino ad ottenere un quadro completo, ma di chi si perde nella contemplazione di alcune tessere e lascia al lettore il compito di creare, nella propria mente, un quadro di vita. Si tratta di una narrativa che non si risolve nella narrazione di una storia, bensì nella suggestione di un’atmosfera.

Questo modo di scrivere può apparire irritante, tanta è la distanza fra chi legge e chi scrive. Ma non si tratta mai di una distanza misurata con il metro della comprensione logica, bensì del proprio sentimento del mondo, che può accordarsi o meno con quello espresso dallo scrittore. Perciò il severo recensore citato all’inizio di questo mio articolo non sbaglia affermando ciò che dice, perché non è obbligato a capire questo romanzo. I romanzi incontrano i loro lettori e quando bussano all’indirizzo sbagliato vengono mandati a quel paese.

Il discorso però cambia se quel lettore è un critico, o un editore, o un redattore, o un giurato di un premio letterario, o un agente. Queste persone, che di fatto determinano la produzione della letteratura in un Paese, non possono fare a meno di riconoscere la qualità di un’opera simile, anche quando può piacere solo a una minoranza di lettori.

In Italia mi sembra che da molti anni, dalla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, si sia imposto un solo modello narrativo, quello affermatosi nell’Ottocento. È un modello che amo, ma che da solo non riesce a rendere conto della complessità del mondo. A partire da quella data, con l’eccezione di Paolo Nori e delle opere sparse di altri valenti autori (ad esempio Gli oscillanti di Claudio Morandini – Bompiani 2019, e Lu campo di girasoli di Andrej Longo – Adelphi 2011), la letteratura che apprezzo di più posso leggerla solo in traduzione. Sarà perché nessuno, qui da noi, continua quella tradizione, o perché le scelte del mondo editoriale italiano sono determinate dal conformismo? Se così fosse sarebbe uno spreco. Perché un’industria che si regge sull’immaginazione si taglierebbe le gambe da sola chiudendo la strada a paradigmi narrativi alternativi (e in realtà complementari), a quello dominante.

Se fosse ancora vivo, il mio cane sarebbe d’accordo con me.

Una risposta a “In una notte buia Peter Handke sognò una letteratura differente”

  1. Sempre interessanti questi scritti sulla scrittura.
    Anche questo libro mi manca, quindi grazie.
    Pure il mio cane mi dava spesso ragione.
    ciao

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