Tutte le immagini scompariranno, Annie Ernaux

Cominciando a leggere Gli anni di Annie Ernaux (Gallimard 2008, L’orma editore 2015, traduzione di Lorenzo Flabbi), ho provato la sensazione di trovarmi dentro un libro che emanava lo stesso sentimento del mondo del romanzo di Brainard. È un sentimento suscitato soprattutto nelle prime pagine, dove si susseguono ricordi come questi:

“la donna accovacciata che, in pieno giorno, urinava dietro la baracca di un bar al margine delle rovine di Yvetot, dopo la guerra, si risistemava le mutande con la gonna ancora sollevata e se ne tornava al caffè” (p. 9)

Ma poi il discorso si fa più strutturato, perché accanto alle immagini che l’autrice evoca cercandole nella sua memoria, appare presto una sequenza dedicata al linguaggio, introdotta da questa considerazione:

“Si annienteranno d’un tratto le migliaia di parole che sono servite a nominare le cose, i volti delle persone, le azioni e i sentimenti, che hanno dato un ordine al mondo, che ci hanno fatto palpitare e bagnare.” (p. 13)

Lo scarto fra le immagini che si ricordano e le parole con cui si è ordinato il mondo rivela un progetto dal respiro più ampio rispetto al libro di Brainard. Si va oltre l’elenco dei ricordi che segnalano prima di tutto a noi stessi la vita che abbiamo vissuto, ma non è ancora chiaro di cosa si tratti.
Dopo queste pagine c’è uno stacco, come se dovesse iniziare un nuovo capitolo, tuttavia il libro non sarà diviso per capitoli, bensì, lo scopriremo leggendo, in sole due parti: le immagini e le parole ricordate nelle prime dieci costituiscono il preludio, tutto il resto lo svolgimento del tema.
Si tratta di un tema articolato secondo due criteri: il tempo della biografia personale, quello della biografia collettiva. Il primo è annunciato da una serie di descrizioni di fotografie che ritraggono la protagonista dai primi mesi d’età fino a quando è una donna anziana con in braccio la nipotina, il secondo dall’analisi del suo tempo. A colpirmi, per come viene trattato, è stato soprattutto questo secondo aspetto della Ernaux, ben esemplificato da questo ricordo:

“Verso la metà degli anni Cinquanta, nei pranzi di famiglia, gli adolescenti restavano a tavola, ascoltavano senza immischiarsi, sorridevano educatamente a battute che non li facevano ridere […]. Ci lasciavamo pervadere dalla dolcezza delle tavole festive […]” (p. 61)

Nel passaggio del soggetto, dal loro al noi, Ernaux sancisce il legame fra la sua storia e quella degli altri. Sarà bambina ai tempi della ricostruzione post-bellica insieme ad altri bambini, adolescente alla fine degli anni Cinquanta assieme ad altri adolescenti, ragazza nei Sessanta, assieme ad altri ragazzi, e poi donna, insegnante, femminista, simpatizzante di sinistra, moglie, madre, pensionata… insieme alla sua generazione.
Ernaux non pretende di descrivere un’epoca, di tracciare un quadro generazionale valido per tutti i francesi suoi coetanei, perché il lato biografico del racconto ci ricorda costantemente di essere di fronte alla ricostruzione di una storia vissuta da una persona precisa, che può essere collocata solo in alcuni gruppi sociali, non in tutti. Eppure questa persona non riesce a situare se stessa se non in relazione con chi ha condiviso il suo tempo (o meglio: con chi l’ha vissuto con uno sguardo simile al suo). Questo tema, della coscienza individuale inserita in un contesto collettivo, non è reperibile nel romanzo di Brainard, dove al centro di tutto sta unicamente l’“io” di chi ci parla.
Leggendo Gli anni invece noi sappiamo cosa pensava Ernaux ad esempio dell’Algeria negli anni Cinquanta, e cosa negli anni Sessanta. Nel suo romanzo cita casi di cronaca (come l’affare Dominici), parla di politica (la guerra in Indocina, in Algeria, il massacro parigino degli arabi del 17 ottobre 1961…), di costume (canzoni, film, libri, pubblicità). Ci offre la sua versione di come la percezione del sesso sia mutata negli anni, di come si siano evoluti l’istruzione, l’inurbamento, il rapporto con gli immigrati arabi, la condizione delle donne… L’io della Ernaux è inscindibile dalla collettività.
Ecco cos’era il richiamo al linguaggio. Chi è concentrato su di sé non lo lo prende in considerazione, dandolo per scontato, chi invece pensa alla sua epoca non può fare a meno di notare come sia il collante fra noi e gli altri. E così come la nostra memoria è costellata di fatti personali, allo stesso tempo esistono espressioni, modi di dire, tipici di un tempo in cui si è vissuti, e al pari di un’acconciatura possono passare di moda, divenendo uno dei segni di quell’epoca. Uno dei segni che ci ha definito. E che ha definito chi ci ha preceduto.

Ogni riflessione parte dall’analisi di una foto (quella di “un neonato grassoccio”, di “una bambina di circa quattro anni”, di “questa ragazza che è tornata a portare gli occhiali”, di “una giovane donna e un bambino seduti una accanto all’altro”…), ma in nessuna l’autrice de Gli anni ci dice esplicitamente che il soggetto ritratto è lei stessa. Ma allora, come facciamo a dire che è lei? E che di conseguenza quello che stiamo leggendo è un racconto biografico?
In parte lo comprendiamo rintracciando in ciò che ci viene raccontato le similitudini con alcune notizie biografiche (ad esempio l’infanzia in provincia, o il mestiere di insegnante), ma questo non è sufficiente. Potrebbe benissimo trattarsi di personaggi fittizi. Le foto inventate. E allora, da cosa? Da qualcosa che non si può leggere eppure permea la scrittura: il pathos. Ernaux si sta guardando da fuori, come qualcuno che studia un soggetto, ma allo stesso tempo la partecipazione con cui questo qualcuno ci parla non si addice a un’analisi fredda. Il calore tradisce l’identificazione fra il soggetto ritratto nella foto e il suo studioso. Alla fine del romanzo troveremo conferma di questa lettura quando l’autrice parlerà di sé in terza persona, spiegando la poetica con cui è scritto il libro che stiamo finendo di leggere:

“La forma del suo libro può dunque emergere soltanto da un’immersione nelle immagini della sua memoria per esporre in dettaglio i segnali specifici di un’epoca…” (p. 262)

E poco più oltre:
“Di ciò che il mondo ha impresso in lei e nei suoi contemporanei se ne servirà per ricostruire un tempo comune […] per restituire, ritrovando la memoria della memoria collettiva in una memoria individuale, la dimensione vissuta della Storia.” (p. 263)

Da lettore ho provato una piccola delusione a questo punto del romanzo, perché la poetica di Ernaux era chiarissima, non necessitava di nessuna spiegazione; il fatto che lei l’abbia scritto, nero su bianco, mi ha dato l’impressione che fosse venuta a meno la complicità fra lettore e scrittore. Insomma mi sono sentito come l’innamorato quando si accorge che la sua ragazza si sente in dovere di spiegargli qualcosa (perché magari è un po’ tonto).
Mi rendo conto però che, essendo Gli anni un’opera biografica, parlare delle motivazioni che hanno spinto l’autrice a scrivere in un modo invece di un altro sia stato per lei un dato biografico importante, perciò l’ha voluto trascrivere. In un libro che è memoria e confessione ha sentito di dover mostrare anche il suo sentiero di scrittrice.

Se il sentimento di partecipare, attraverso la propria vita, a una dimensione collettiva della storia è la differenza più eclatante con l’opera di Brainard, nondimeno ciò che l’avvicina in maniera impressionante è la stessa consapevolezza di scrivere un libro tenendo presente l’idea della morte, della temporalità della propria coscienza. Del resto, Annie Ernaux ci aveva avvertito fin dalla prima riga: “Tutte le immagini scompariranno”.