Lars Gustafsson o l’inganno del cane

La prima volta, tre o quattro anni fa, che ho letto Storia con cane di Lars Gustafsson (Iperborea, Milano, 1995, traduzione di Carmen Giorgetti Cima) mi è piaciuto molto, come tutti i suoi libri, ma non l’ho capito. Me ne sono reso conto solo rileggendolo il mese scorso, quando invece l’ho capito. Forse. La prima volta mi era piaciuta la storia, ma l’ho letta come se fosse vera, invece la seconda volta mi sono reso conto che il protagonista narratore era un bugiardo, anzi, un reticente, uno che magari vorrebbe dire la verità ma preferisce lasciarne trapelare solo una traccia, anche perché si tratta di una verità imbarazzante, e che se scoperta potrebbe avere serie conseguenze penali per lui.

Il romanzo parla di un giudice fallimentare alle soglie dell’età anziana che ha scoperto da poco il tradimento morale perpetrato dal vecchio insegnante di filosofia dell’università ai danni dei suoi ex-studenti. Il professore, un immigrato olandese del dopoguerra, si era spacciato come un resistente al regime nazista, ma in realtà ne era stato un collaboratore. Su un quotidiano aveva fornito il suo personale contributo alla soluzione finale degli ebrei, partecipando alla campagna razzista e denigratoria contro di essi. Alla luce di questa scoperta il protagonista, il giudice Erwin Caldwell, riconsidera criticamente uno degli insegnamenti filosofici del vecchio professore, quello per cui è impossibile individuare uomini buoni o cattivi, perché ciascuno di noi è una persona diversa a seconda delle circostanze. Ora quella spiegazione gli pare una scusa di comodo. Tuttavia il giudice sa che, scusa o non scusa, quell’affermazione racchiude comunque una verità: lui stesso pochi giorni prima ha ucciso un cane con il tagliasiepi, e non si è trattato di un incidente, l’ha ucciso perché aveva l’abitudine di rovesciare i suoi bidoni dell’immondizia e in lui questa cosa ha finito per destare una furia omicida. E, come ci informa lui stesso, ha provato una “gioia segreta” mentre uccideva il cane. Quindi il narratore, non dimentichiamolo, è un assassino. D’altronde non si sente in colpa, ce lo dice chiaramente:

“Sarei un uomo crudele? Scempiate! Credo di essere una persona perfettamente normale. E sono convinto che tutte le persone perfettamente normali, nelle stesse circostanze, avrebbero potuto agire esattamente come me.” (p. 108)

Noi che leggiamo il suo racconto abbiamo modo di vedere come si prende cura del nipotino in visita dai nonni e non riusciamo a mettere in dubbio che egli sia una persona sensibile e affettuosa. Si preoccupa perché il giardino della casa in riva al fiume è un posto troppo pericoloso per un bambino di sei anni, così lo porta a pattinare sul ghiaccio, e poi in un negozio di animali, dove il bambino sceglie una tartaruga, e lui gliela compra. Insomma, è un nonno premuroso e caro, una persona normale, profondamente scossa dalla scoperta del vero passato del suo vecchio professore di filosofia. Sembra che da quel momento la presenza del male abbia cominciato ad ossessionare il giudice Caldwell; di sicuro è la condizione che determina la nascita del romanzo, presentandoci un uomo tormentato e colpito dalla malvagità degli esseri umani.

Nel prologo il protagonista ci racconta di aver chiamato un suo vecchio amico, procuratore distrettuale (il romanzo è ambientato ad Austin, in Texas), autoaccusandosi di un omicidio. L’amico accoglie la notizia senza scomporsi e lo informa che in realtà il vero colpevole è già stato scoperto.

Per il momento era propenso a giudicare la confessione una delle tante manifestazioni del mio stato depressivo di quegli ultimi tempi di cui gli avevano parlato. Aveva sentito che ero rimasto molto scioccato dalla morte del professor van de Rouwers, e forse ancor più da certe rivelazioni sulle sue attività di gioventù in Olanda durante la guerra. Ma mica volevo sottindere, chiese, […] che avevo ucciso anche il professor van de Rouwers?

No, risposi. Con la sua morte non avevo niente a che fare.” (p. 14)

Ecco, finisce così il prologo, con questa dichiarazione di innocenza, e comincia la storia. Una storia dove il male, quello degli uomini e quello della natura, costituisce un continuo intercalare della vita del giudice Caldwell. Il protagonista ad esempio ci racconta, per bocca della sua parrucchiera, di come un bambino fosse stato abbandonato dai genitori in uno dei parcheggi per roulotte degli operai trasferitisi in Alaska durante il boom per gli oleodotti del 1982: il bambino un pomeriggio torna a casa da scuola e fra la neve al posto del camper trova un rettangolo di asfalto pulito. E poi c’è l’incendio doloso dei motoscafi nella darsena, per quanto la cosa non sconvolga il giudice, visto che lui, come chiunque abiti in riva al fiume, provava un vero odio per quelle imbarcazioni che con le onde provocate dalla loro velocità erodevano rive e pontili. E poi negli ultimi mesi ci sono le notizie di ragazze uccise nelle contea. E ancora un pomeriggio, portando il nipotino Tom a una festa di compleanno a casa di un amico, si imbatte in un animatore cattivo, un prestigiatore che al momento di distribuire i palloncini a forma di animali ai piccoli invitati fa rifare ingiustamente la fila a Tom e al suo compagno per poi dire loro, quando se li ritrova davanti, che ha finito i palloncini. Caldwell capisce che mente, e che quello è un uomo che odia i bambini. E poi, ancora, c’è l’incombente alluvione del fiume, conseguenza delle piogge torrenziali che costringono la diga della centrale idroelettrica poco lontana ad aprire alcune paratie.

Ma il male non traspare solo dalle minacce della cattiveria degli umani o dalla forza incontrollata degli elementi (acqua o fuoco che siano), diventa un tema di riflessione costante.

Il giudice Caldwell, che è un ebreo svedese emigrato negli USA durante gli anni ‘50, analizza sulla scorta del suo omicidio la legislazione nazista in materia di protezione degli animali: erano state inasprite le pene per chi li maltrattava nello stesso momento in cui le leggi di Norimberga preparavano la discriminazione giuridica che avrebbe portato alla soluzione finale.

Più oltre le considerazioni del giudice assumono un tono da speculazione religiosa attraverso l’incontro con Theresa, “la signora della libreria”. Lei è la moglie di uno scrittore di fantascienza prolifico e paranoico che chiama i suoi romanzi con titoli strani e lunghi (e che a me ricorda Philip K. Dick). Il marito, scomparso da anni, sembra che abbia avuto una rivelazione da Dio, un Dio gnostico: il mondo era stato creato da un Dio malvagio e ora il Vaticano era sulle tracce dello scrittore per metterlo a tacere. Il giudice, da parte sua, coadiuvato dalle osservazioni sagaci del nipotino (“Lui pose praticamente la stessa domanda che formula William Blake nella sua poesia sulla tigre: può lo stesso Dio che ha creato la tigre aver creato i serpenti, le lucertole, le tartarughe?” p. 174), arriva a pensare che l’universo sia stato creato da differenti dèi succedutisi fra loro, lasciando in retaggio le forze naturali che guidano l’universo:

“Fisici sciocchi, con alla testa Einstein, nella dannata convinzione che può esistere un unico Dio, si rompono la testa nell’impossibile tentativo di unificare le forze.” (p. 174)

E poco più oltre trae le conclusioni etiche che l’esistenza di più dèi comporterebbe:

“Se ognuno di quegli dèi in concorrenza ha le sue proprie leggi naturali si può forse pensare che ogni Dio abbia anche una sua propria etica. […] In una è consentito bastonare i cani fino a che i loro corpi si fanno pesanti ma anche morbidi e docili, e nell’etica di qualche altro Dio questo è sbagliato, totalmente sbagliato.” (p. 175)

Il finale del romanzo ribadisce la crudeltà del Dio che ha creato il mondo in cui viviamo. Il giorno che il giudice Caldwell accompagna il nipotino e la madre in aeroporto toglie la tartaruga dal giardino e la mette in una scatola per impedirle di allontanarsi indisturbata verso il fiume. Poi se la dimentica. Quando una settimana dopo, riordinando il garage la ritrova, è morta, il suo corpo rinsecchito e spolpato da fameliche formiche:

“In tutta la sua piccolezza […] era un memento non trascurabile della vanità della morte, dell’ingiuria inaudita che c’è in questo: che possiamo diventare un nulla. E solo perché qualcuno ha smesso di amarci.” (p. 233)

Sembra un testamento spirituale, una considerazione filosofica sul senso della vita, e su Dio e sul mondo pieno di dolore che ha creato. E sull’affetto che può salvare gli uomini, o perderli.

Ecco, io la prima volta Storia con cane l’avevo letto così. Una storia di quotidiani avvenimenti raccontata da un uomo ossessionato dai segni del male che coglie intorno a lui. L’avevo letto come la trascrizione di un sottile senso di vertigine che pervade un momento preciso della vita del protagonista, quello che lui ha deciso di raccontarci.

Poi rileggendo il romanzo ho colto dei segni che durante la prima lettura mi ero lasciato sfuggire. Ad esempio l’uomo più intelligente degli Stati Uniti.

Il giudice Caldwell incontra l’uomo più intelligente degli Stati Uniti un pomeriggio in un edificio dell’Università, nella toilette. È ingolfato da diverse cartelle enormi e dentro, quando lui le apre e gli mostra il contenuto, il giudice scopre delle tavole che gli ricordano quelle di un logico del secolo XI Raimondo Lullo. L’uomo più intelligente pensava di essere arrivato a conclusioni originali (come me, non aveva mai sentito prima di allora il nome di Lullo), invece ora si sente sminuito nella sua genialità.

“Da quel momento l’uomo mi odiò a morte” (p. 187), ci dice il giudice.

E infatti l’uomo più intelligente comincia a inviare delle cartoline al giudice, senza firmarle, ma Caldwell sa che è lui a spedirle. Sono cartoline del toro longhorn, molto famose in Texas, ma il giudice non dubita minimamente che esse celino una minaccia. L’ultima cartolina è una vecchia stampa del patibolo della Torre di Londra, e il giudice capisce che l’odio dell’uomo più intelligente è arrivato a un livello pericoloso; ce lo dice con queste parole:

“Ma a questo punto la misura è colma.

Domani mattina.” (p. 224)

Domani mattina, cosa? Sembra un proponimento tronco. La prima volta che l’ho letto non ci ho fatto troppo caso, anche perché subito dopo il giudice racconta che il giorno seguente in tribunale arriva un pacchetto a suo nome (sicuramente spedito dall’uomo più intelligente), ma lui decide di non aprirlo. Ecco, la prima volta avevo pensato che quella fosse la soluzione che il giudice si era riproposto di adottare: ignorare il suo persecutore. Ma poi il cadavere dell’uomo più intelligente degli Stati Uniti viene trovato ai piedi di una scarpata da cui era stato gettato, legato gambe e braccia a una sedia, le tavole di Lullo sparse attorno a lui. Ha la bocca riempita da un bavaglio intriso di cloroformio, che più della caduta ne aveva decretato la morte. Allora ho capito che era stato lui, il giudice, a ucciderlo, proprio per il dettaglio delle tavole che richiamava l’origine dell’odio che l’uomo più intelligente provava per lui. Il pacchetto era stato spedito poco prima che l’uomo più intelligente morisse, ecco perché il giudice lo ignora: per lui il caso era chiuso, sapendo bene che l’uomo più intelligente non avrebbe spedito più nessun’altra cartolina, o pacchetto. E poi ricordate? le memorie di Erwin Caldwell erano cominciate con la sua autodenuncia di un assassinio, anzi di un assassinio “particolarmente brutale” (p. 13), e quando ci parla del ritrovamento del cadavere dell’uomo più intelligente parla di “dettagli orripilanti” (228): quindi era il suo omicidio che voleva confessare. Ma non era stato creduto. Né dal suo amico procuratore, né da me.

Certo, c’era un reo confesso. Ma si tratta di un pregiudicato arrestato vent’anni prima per violenze, non per omicidio, e potrebbe trattarsi di un mitomane.

Del resto, quello dell’uomo più intelligente degli Stati Uniti e quello del cane non sono stati gli unici delitti che il giudice ha commesso.

Nel corso del romanzo ci ha raccontato di un altro assassinio, avvenuto anni prima, all’interno del tribunale. Un cancelliere era stato trovato con un coltello infilato nella schiena. Si trattava di un uomo potente perché era l’ombra di un giudice che ormai si stava rimbambendo e si diceva che era lui, il cancelliere, in realtà a scrivere le sentenze. Era una persona bene informata sui fatti di molta gente, qualcuno che poteva essere temuto da molti. La sua morte venne rubricata come suicidio ma Caldwell lascia intendere che in realtà le cose andarono diversamente. Però dice anche qualcos’altro. Ci racconta di aver incontrato un conoscente che dopo aver rispolverato la storia del cancelliere si era congedato dicendogli che gli dispiaceva per il cane:

“Cosa ne poteva sapere lui, del cane? E quale cane, poi? Quello che ho ucciso in un accesso di collera un mattino dell’autunno scorso, o l’altro?

(Che cosa intendo con l’“altro” non saprei. Mi è come venuta l’idea che ne esista un altro.)” (p. 172)

Cosa significa che ne esiste un altro? La prima volta ho preso questa considerazione come il frutto di una mente che si era lasciata suggestionare, ma durante la rilettura del romanzo mi è sembrata un’interpretazione debole. Era invece un altro indizio lasciato cadere con finta noncuranza da un reo-confesso reticente. Del resto, perché uno scrittore esperto come Gustafsson (lo stesso Lars Gustafsson che ha scritto, fra altri meravigliosi libri, Morte di un apicultore e Il pomeriggio di un piastrellista), dovrebbe scrivere una cosa così vaga e imprecisa? Perché voleva essere vago e impreciso, mi rispondo. O meglio, perché il suo personaggio in quel momento voleva apparire come tale.

E poi c’è un’altra cosa ancora, la più inquietante, perché il crimine viene lasciato solo intuire.

Quando il giudice Caldwell ci presenta Theresa adopera queste parole:

“La donna alla cui scomparsa apparentemente – pur senza colpa – avrei in seguito avuto parte, mi si presentò davanti per la prima volta un giovedì d’aprile.” (p. 21)

Per tutto il romanzo, entrambe le volte che l’ho letto, mi sono aspettato che lei scomparisse, ma non è mai successo. Anzi, quando il giudice alla fine dell’opera torna a parlare di Theresa per l’ultima volta dice di volerle telefonare per raccontarle la fine dell’uomo più intelligente (che, tra parentesi, reperiva le cartoline vintage proprio nella sua libreria), e aggiunge che lo farà:

“… non appena sarà tornata a casa. Dal suo viaggio.” (p. 230)

Ma non ci aveva mai detto che era partita. Ci aveva detto, duecento pagine prima, che sarebbe sparita. Come mai questa incongruenza narrativa? E ancora: è vero che si dice innocente della sua scomparsa, ma se è un bugiardo a parlare gli crederemmo? Rimane, certo, da individuare il movente. Una cosa che non vi ho detto è che il giudice ha una relazione con questa donna e ciò che mi ha colpito mentre leggevo il romanzo è come il protagonista sia stato stranamente parco di dettagli in proposito. Come se non volesse dire troppo. E’ vero, se fossi un poliziotto non potrei incriminarlo per questo, ma un poliziotto, o un giudice istruttore, a differenza di me, potrebbe interrogare l’individuo sospetto, io invece posso solo fare i conti con pagine da decifrare. Ad esempio se prendo per buona l’ipotesi che Caldwell abbia fatto sparire Theresa, allora anche gli omicidi di giovane donne di cui parla potrebbero avere qualcosa a che fare con lui.

E un’altra cosa ancora: il rogo dei motoscafi chi l’aveva innescato? Perché se cominciamo a pensare a tutte le cose che davano fastidio al giudice, anche quelli entrano nel loro novero…

E soprattutto, che è successo davvero al vecchio professor van de Rouwen?

Caldwell ci dice che è stato trovato annegato. Forse ha avuto un malore ed è finito in acqua, proprio la sera del rogo dei motoscafi: se non fosse stato per quello il suo corpo non sarebbe stato ripescato dai pompieri intervenuti per spegnerlo. O forse si era suicidato. O forse le cose erano andate diversamente, e il rogo dei motoscafi serviva a coprire un omicidio. Certo, il giudice Caldwell aveva detto al suo amico procuratore che lui no, non l’aveva ucciso, ma voi vi fidereste di un bugiardo? O di un assassino reticente?

Gustafsson ci dice che non bisogna fidarsi di chi scrive, o di chi narra una storia, perché può essere un bugiardo. E ci dice che una reticenza ha lo stesso peso di una cosa detta chiaramente. Certo, sulle reticenze e i buchi nella narrazione è possibile solo costruire ipotesi e non ricavare un quadro esatto degli avvenimenti, ma sembra proprio questo l’invito di Gustafsson: addentrarsi in un territorio ignoto, o solo intuito, per provare a vedere cosa c’è. Io non so se tutte le mie speculazioni sono vere, ma so che “la storia del cane” presa così com’è sarebbe solo come il fumo che nasconde il fuoco.

Se uno scrittore vuole scrivere di un assassino seriale si cimenta in un thriller, che come tutta la lettura di genere segue delle regole precise, fra le quali c’è quella che il cattivo è cattivo, e il buono alla fine lo scopre, e durante l’inchiesta ci sono colpi di scena e brividi. Ma che libro potrebbe scrivere uno scrittore che vuole raccontare l’anima pulita e lercia di un uomo (dipende dai giorni o dal Dio che lo governa), che vorrebbe confessarsi ma allo stesso tempo vuole evitare la condanna? Magari un libro che è una menzogna raccontata al lettore.

C’è un tipo di letteratura che si basa sulla verosimiglianza e la plausibilità del racconto. Attraverso queste caratteristiche una storia coerente tiene incatenati i lettori alle vicende dei personaggi e giunto all’ultima pagina chi legge prova l’emozione di aver vissuto una vita in più. Siamo grati a questi scrittori che con la loro abilità ci trasmettono la sensazione di crescere, approfondendo la conoscenza di noi stessi. Nei loro libri la storia raccontata diventa l’elemento principale: è attraverso quel frammento di vita di altri che noi lettori proviamo l’immedesimazione che ci permette di essere coinvolti in questo meccanismo di crescita e godimento. Molti degli scrittori che amo scrivono secondo questo modello: Abraham “Boolie” Yehoshua, Javier Marías, Cormac McCarthy, José Saramago… Sono caratterizzati da stili differenti ma accomunati dallo stesso modello letterario. È il modello affermatosi nell’Ottocento, quello di Dostoevskji e Flaubert.

Ma c’è anche il modello del Novecento (modernismo, école du regarde, gruppo ‘63…), per cui il compito della letteratura non è descrivere la realtà, perché la scrittura è limitata (se dico “blu”… voi pensate allo stesso colore che ho in testa io?), e la complessità del reale non può quindi essere colta nella sua interezza. Alla scrittura spetta la ricerca di un senso, più che l’espressione della verità e il romanzo perde la fisionomia confortevole di specchio della nostra vita. Non è più una storia, bensì un atlante in continuo divenire per dare ordine ai nostri pensieri.

Tornando a Lars Gustafsson, nel primo modello lo scrittore può parlare di un inganno, magari descrivendolo, nel secondo lo materializza, facendovi precipitare il lettore dentro. Gustafsson, in buona compagnia della maggior parte degli scrittori di cui parlo in questo sito, scrive secondo il modello meraviglioso del Novecento.