L’ apparenza di Milan Kundera

Il primo romanzo che Milan Kundera scrive in francese, segnando quello che finora permane il suo abbandono della lingua ceca, è La lentezza (La lenteur, Gallimard, 1995), a cui seguiranno negli anni, per lo stesso editore, altri tre romanzi, L’identità (1997), L’ignoranza (2001) e La festa dell’insignificanza (2013). Nella mia testa chiamo questa produzione “la fase francese di Kundera”, e mi è molto cara. Vorrei cominciare a parlare di questa fase proprio dal primo romanzo che però, sempre nella mia testa, si chiama con un altro nome: L’apparenza.

Il romanzo comincia parlando di lentezza e velocità. L’io narrante guida una macchina, in compagnia della moglie, diretto in un castello trasformato in hotel per passarvi una serata e la notte. Sta vivendo una situazione rilassante, quindi. Nello specchietto retrovisore lampeggia la freccia sinistra dell’auto che ha alle spalle, segnalandogli, con la guida impaziente dell’altro autista, la volontà di volerlo superare, visto che il traffico nell’altra corsia non lo consente. Questo suscita nel protagonista una riflessione sul contrasto fra lentezza e velocità. Il motociclista, a differenza dell’uomo che corre a piedi, dimentica il suo corpo:

“…il s’adonne à une vitesse qui est incorporelle, immatérielle, vitesse pure, vitesse en elle-même, vitesse extase.” (…si abbandona a una velocità che è incorporea, immateriale, velocità pura, velocità in se stessa, velocità estasi)

(pag. 11)

E per contrasto, poche righe dopo, il protagonista si chiede che fine abbia fatto il gusto per l’ozio, per la lentezza. Ciò gli suscita alla memoria un viaggio compiuto da un’altra coppia, verso un altro castello, duecento anni prima. Un viaggio in carrozza, quindi, decisamente più lento di quello che il protagonista sta compiendo assieme alla moglie. Non si tratta però di un pensiero astratto, di una coppia e di un viaggio scaturiti dalla fantasia del protagonista, bensì dal ricordo di un racconto di un autore francese del Settecento, Vivant Denon, Senza domani. Ecco, in quel momento i due personaggi di Denon entrano dentro il romanzo di Kundera, realizzando un alternanza fra passato e presente che culminerà con l’abolizione del tempo: un personaggio del Settecento (il gentiluomo del racconto di Denon, che il narratore immagina essere un cavaliere), si incontrerà con un personaggio della fine del novecento (Vincent, nella finzione un amico del protagonista).

La commistione fra passato e presente non si instaura da subito, perché l’autore ci mette davanti a continue digressioni. Dopo aver raccontato la trama di Senza domani e aver detto che quel racconto viene considerato una della massime espressioni della letteratura del Settecento, Kundera si addentra in una divagazione sul concetto di edonismo espresso dai libertini, specificando che più del piacere essi inseguivano in realtà il dominio sugli altri. Poi Kundera fa ritorno ai due personaggi iniziali, l’io narrante e la moglie. Li fa cenare in albergo e dopo cena li fa salire in camera. Lì accendono la televisione e capitano su un servizio che parla dei bambini che stanno morendo in Somalia. Ciò permette all’autore, ragionando sulle campagne di sensibilizzazione per quell’emergenza umanitaria, di abbandonarsi a un’ulteriore digressione sull’importanza, per certi uomini politici e intellettuali, di esporsi sui media. Certo, solo apparendo pubblicamente si possono far valere le proprie opinioni, ma in alcuni individui l’esposizione mediatica diventa un fine, e non il mezzo: io sono nella misura in cui riesco a imporre agli altri l’immagine di me che voglio mostrare.

Su questo concetto, l’essere in rapporto all’apparire, ruota la connessione fra passato e presente, fra i personaggi del Settecento e quelli della fine del XX secolo. Non è la lentezza il tema del romanzo, ma l’apparenza. Ma allora, perché Kundera lo ha intitolato La lentezza?

C’è un momento nel romanzo in cui Kundera, attraverso le parole della moglie del protagonista (un romanziere), sembra spiegare il senso dell’opera:

“Tu m’as souvent dit vouloit écrire un jour un roman où aucun mot ne serait sérieux. Une Grande Bêtise Pour Ton Plaisir. J’ai peur que le moment ne soit venu.” (Spesso mi hai detto di voler scrivere un romanzo in cui nessuna parola sarebbe stata seria. Un Grande Nonsenso Per Il Tuo Piacere Personale. Temo che quel momento sia arrivato.)

(p.110)

Dunque, se volessimo accettare per buona la strada indicata da Kundera, il piacere dalla lentezza lo conduce al gusto di perdersi in divagazioni, senza perseguire un progetto, o tracciare un discorso preciso, né sostenere una particolare idea. Questo Grande Nonsenso Per Il Suo Piacere Personale sarebbe la materializzazione artistica del suo gusto per la lentezza. Ma non credo che le cose stiano così: La lentezza non è un nonsense, invece un gesto di libertà.

C’è infatti un altro autore non citato nel libro di Kundera che però si affaccia dalle pagine dell’opera. Un autore anch’esso del Settecento, Denis Diderot. Lo stile di Kundera riprende, facendolo suo, quello di Jacques le fataliste et son maître, un romanzo dove regna la digressione e la divagazione (qui ho scritto le mie considerazioni su quest’opera). Il sentiero che segue Kundera non è quello di un nonsense, ma di un tributo a un autore che stima: nel 1971 aveva già composto un’opera teatrale dedicata al romanzo di Diderot: Jacques e il suo padrone: Omaggio a Denis Diderot in tre atti.

Ricapitolando, il tema della Lentezza è l’apparenza (il filo conduttore fra le varie digressioni che compongono il romanzo), mentre il respiro dell’opera è il modello letterario di quel romanzo di Diderot.

Le opere che consideriamo “classici” lo sono perché sopravvivono in altri scrittori. Gli scrittori sono quei particolari lettori che attraverso la loro espressione artistica fanno riecheggiare gli stili, i modelli, che hanno amato. Un autore continua ad essere presente, attuale, non tanto nella misura in cui un critico gli dedica un saggio, bensì grazie a quegli scrittori che nel loro tempo mantengono vivo qualcosa del suo sguardo del mondo, avvicinando i lettori a loro contemporanei a quello di un’epoca lontana.

C’è anche un altro elemento che lega la Lentezza a Jacques le fataliste, l’umorismo. Perché Kundera, nel suo discorso fra essere e apparire (e sul dominio degli altri attraverso l’apparenza), sconfina apertamente nella parodia. Credo che si sia fatto un sacco di risate mentre scriveva questo romanzo. A Rontagnano direbbero: “si è divertito la faccia”.

Leggendo La lentezza ho pensato che quando Milan Kundera ha lasciato la lingua madre per quella della nazione che l’ha adottato conferendo, a lui apolide, la cittadinanza, ha voluto rendere un omaggio alla lingua francese con un atto d’amore verso un capolavoro della sua letteratura. Se il ceco è la lingua madre, il francese è quello della letteratura, che non è mai adottiva, perché parla tutte le lingue.