Letteratura e responsabilità – il romanzo “non-storico”

Attorno ai vent’anni ho cominciato a prestare attenzione a una caratteristica delle opere che leggevo e che durante l’adolescenza non avevo mai notato: il senso di responsabilità di chi scrive, ovvero la cura dell’autore verso la realtà. Leggendo certi autori mi ero accorto che scrivevano per raccontare storie con il mero scopo di avvincere il lettore, mentre cominciando a leggerne altri, in primo luogo Gianni Celati e Antonio Tabucchi, scoprivo un modo di scrivere attento a non imporre la sua visione delle cose. Non si trattava solo del confine fra il plausibile e l’inverosimile ma di un vero e proprio senso di responsabilità verso la narrazione, nato dalla consapevolezza del potere posseduto da chi racconta qualcosa. Chi racconta, in quel momento, è il Dio delle cose che il lettore legge, e se lo fa pretendendo di offrire una verità corre il rischio di barare, perché la verità non può coincidere con la realtà, è sempre un’interpretazione. Sia chiaro, i due autori che ho citato non sono migliori di altri, sono solo stati i primi con cui io ho percepito per la prima volta questa dimensione della scrittura. Da allora l’attenzione per il senso di responsabilità è stato uno dei criteri principali con cui ho scelto gli autori che leggo.

Tornando a Gianni Celati e Antonio Tabucchi (gli autori che hanno acceso la scintilla della scrittura in me), mi colpiva il loro stile sobrio capace di suscitare emozioni senza cadere mai nell’enfasi. Tanto per fare un esempio le parole che usavano erano sempre misurate (non usavano diminutivi, né accrescitivi), e scelte con cura chirurgica. Una frase che Celati deve aver scritto, se ricordo bene in Verso la foce (Feltrinelli, 1988), è questa: “chiama le cose con il loro nome se vuoi che le cose tornino a te”. Ho messo le virgolette ma sinceramente non la ricordo con precisione (e in questo momento non ho voglia di rileggere il libro, perdonatemi), però il senso è quello: scrivere facendo attenzione a non aggiungere cose che non ci sono.

Questa frase, nella mia testa, si completa con un pensiero che ho letto recentemente, nell’ultimo libro di Cees Nooteboom, Venezia. Il leone la città e l’acqua (Iperborea, 2021), a pag. 65:

“Tutto in questo mondo ha un nome, dalle piante carnivore e dai ragni più insignificanti fino agli scheletri di animali preistorici estinti e ai cartigli sulla facciata di fronte a me, in fin dei conti dobbiamo pur sapere di cosa stiamo parlando, anche se non per questo i misteri si fanno meno fitti.”

Non so se per Celati chiamare le cose con il proprio nome fosse una soluzione definitiva, per me, come per Nooteboom, no, ma il fatto stesso che lui si premurasse di prestare attenzione alle parole con cui si indica il mondo mi fa pensare che si ponesse il problema della sua rappresentazione. Ecco, io scrivo con quest’idea, che non potrò mai sapere la verità, nemmeno su me stesso, ma indagarmi è l’unica strada che ho per diminuire l’ignoranza.

Il problema della responsabilità della scrittura emerge nella sua interezza quando leggiamo un romanzo storico. Io rimango affascinato dalla scrittura di Enzo Striano in quel bellissimo romanzo che è Il resto di niente (Loffredo, 1986), e mi lascio trascinare nel racconto come se quella fosse la realtà. L’immedesimazione nella storia è ciò che lo scrittore mi chiede e io sono disposto a concedergliela, perché ne ho voglia (mi da piacere). Però quella non è la realtà. E’ l’immaginazione di una realtà. Io lo so, e ogni tanto sento il bisogno di ricordarmelo.

Certo, la letteratura è finzione, ma quella del genere “romanzo storico” è ingannevole. Anche mentre leggo un romanzo non di genere scatta l’immedesimazione, ma io so che personaggi e situazioni sono fittizi. Lo so da subito. Nondimeno mi immedesimo in quello squarcio di mondo che l’autore apparecchia sotto ai miei occhi; tuttavia, una volta giunto all’ultima pagina io ho ben presente di aver letto una storia inventata, e non per questo meno vera. Perché le invenzioni fanno parte della vita reale. Nel caso del romanzo storico però se perdo di vista il carattere immaginario del racconto corro il rischio di scambiare ciò che mi viene narrato per la realtà. Enzo Siciliano, in quel romanzo, non racconta la vita di Eleonora Fonseca Pimentel durante la Repubblica Napoletana del 1799, ma ci offre la sua interpretazione (sua di lui, non di lei). E non è la stessa cosa.

Il romanzo storico ha il pregio e il potere di ricreare l’atmosfera di un’epoca e di avvicinare in questo modo il lettore agli avvenimenti narrati. Corre però un rischio, quello di far dimenticare a chi legge che sotto gli occhi egli non si trova una fetta di realtà, bensì solo un punto di vista.

Anni fa, fra il 2008 e il 2009 ho scritto un romanzo su un autore ricordato, a mio parere, più per la sua morte, che per la sua opera. Coerentemente con questa visione si finisce per esaltare la figura di intellettuale scomodo, focalizzando l’attenzione sui suoi articoli giornalistici a scapito delle opere che ha prodotto. Questo approccio in me genera una certa insofferenza. Non volendo scrivere la mia versione della vita di quell’artista, ma proporre invece le mie impressioni di lettore, ho adattato un differente modello narrativo. Desideravo che il lettore non perdesse mai di vista il fatto di stare leggendo una finzione: la mia interpretazione dei fatti. Non una storia vera romanzata, ma una personalissima opinione.

L’opera, che si chiama Napolisi — romanzo non-storico, è divisa in due parti. Nella prima introduco il protagonista, artista poliedrico ricalcato su quello reale a cui mi ispiro, ma variando la biografia: a volte sono solo dettagli minori a divergere dalla realtà, altre i fatti sono palesemente capovolti. Il racconto di Napolisi è punteggiato da brani di opere e citazioni del personaggio reale che diventano l’unica cosa vera del romanzo. Il racconto biografico è intramezzato da interviste immaginarie con scrittori e poeti dell’epoca, la cui identità e certe considerazioni sono al pari rielaborate. Nella seconda parte, a delineare il contesto sociale e politico in cui la vita di Napolisi si svolge, in tre quadri vengono affrontati altrettanti temi dell’Italia degli anni ’50 e ’60: la considerazione dell’omosessualità come devianza (caso Braibanti), il timore per il comunismo (eccidio di Modena del 1950), e la coincidenza fra omosessualità e pedofilia (omicidio di Ermanno Lavorini).

Questo è Napolisi – romanzo non-storico: